“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel chiama “Il caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel. Un libro chiama l’altro

Guadalupe Nettel Tiffany McDaniel

#unlibrochiamalaltro sinapsi letterarie ***

“Il caos da cui veniamo” / “Il corpo in cui sono nata” .

“Da cui” / “in cui”: c’è come un azzeramento di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzionalità in avanti ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e (forse) parzialmente ci sopravviveranno attraverso altri.

Il caos e il corpo, fenomenologia delle radici

A fine ferie mi capita di passare delle giornate nella “mia” casa di famiglia: dove io sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori, dove sono vissuti i miei nonni che fino all’anno scorso erano presenti, tramandati attraverso il corpo, i ricordi e i molti decenni di vita di mia nonna.
In questa casa, in questi giorni, ci siamo io e mio fratello.

Ma le radici hanno una strana fenomenologia. Quando trovano il vuoto iniziano ad emergere, più forti, prepotenti, inevitabili.
Per questo, questi giorni di assenza, sono pieni di presenza. Ed è strano come alla fine dei cortocircuiti di memoria che mi attraversano, mentre salgo le scale, mentre cerco nei cassetti, mentre guardo come da quarantadue anni a questa parte fuori dalla finestra, verso la piazza del paese, io mi incontri a ritroso con me stessa.

Immagino che, per vie e vite personali, questo sia il percorso che Tiffany McDaniel abbia ripercorso ed esplorato, scandagliato con enorme onestà e amore nel suo bellissimo libro “Il caos da cui veniamo“, ispirato alla storia di sua madre. Letto con passione già qualche tempo, mi è stato richiamato alla mente dalla più recente lettura de “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel (più famosa per il suo “La figlia unica)

La semantica di entrambi i titoli è molto potente: il primo libro mi ha attratto tantissimo proprio a partire dal titolo, il secondo è stato in realtà un regalo. Questo accendere le preposizioni di moto da/in luogo nel viaggio della vita è una scelta di grande consapevolezza e coraggio.
“Da dove” / “in cui”. C’è come un azzeramento percepito di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzione in avanti: ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo, di qualcosa che è successo lì e non si sposterà altrove. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e forse parzialmente ci sopravviveranno in altri.

L’uso appropriato e consapevole di queste preposizioni nella grammatica dell’esistenza è una fondamentale conquista, che non può che esserci regalata da esperienza, coraggio e visione, in relazione assolutamente personale e non matematica con la nostra età che avanza. (E non sono affatto sicura che sia poi una conquista di tutti/e)
Il momento della vita in cui ne prendiamo consapevolezza è un momento fondante, di grande liberazione. Il momento in cui diamo voce alla nostra scoperta, puntuale e al tempo stesso sequenziale e rinnovata nel tempo, e scegliamo di raccontare, come hanno scelto di fare le due scrittrici, è un momento di grande poesia.

Per questo “Il caos da cui veniamo” e “Il corpo in cui sono nata” sono due libri di prosa, due memoir se vogliamo, intrisi di questa poesia. Di questa forza propria della “poiesis” che ci forgia, nella genetica e dunque nei nostri tratti somatici come nella nostra cifra esistenziale e nella sintesi travagliata delle cose che si chiama “identità”.
Le radici sorreggono chi siamo e gli danno forma, oltre la forma.
Questa sono io, perché vengo “da” e sono nata “in”. Questa qui sono io.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel chiama “Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel

“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel la scrittura di una esploratrice cosmica


“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel, edizione Atlantide è diventato uno dei miei libri del cuore. Confesso di averlo scelto a caldo per il titolo, non avevo mai letto nulla di questa scrittrice (la bella edizione Atlantide ha probabilmente avuto un ruolo nella scelta tra gli scaffali della Libreria ELI, tra le mie preferite a Roma).
Una poesia, una purezza, un’eplorazione profondissima e avvincente.
Un libro tragico che finisce per decantare la vita. De-cantare, osservarla quando sembra stagnare, putrefarsi e lasciarsi tuttavia incantare dalla scintilla originaria. Dedicato alla figura della madre dell’autrice, “l’Indianina”, che ne è anche la protagonista (Bitty), il libro è illuminato dalla smisurate figure di un padre e una madre in un dualismo delle origini che non può che accompagnarci nella ricerca, a ritroso, di chi siamo. Nella ricerca, che non culminerà nella comprensione ma nell’amore, di quel caos originario che ci ha partorito come stelle impazzite di luce e tragedia.

“Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto di irrequietezza. In fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio.
Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Si, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo”.

E non importa in questo libro quanto sia fantastico e quanto sia reale. C’è dentro verità.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel ovvero “la bellezza fatta donna”

Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel, edizione La Nuova Frontiera mi è stato regalato con una dedica che recitava: Alla bellezza fatta donna”.
La dedica mi ha fatto sorridere, perché avevo intuito una misconcezione di base da parte del “donatore di libri” (che mantengo per sua richiesta anonimo) proprio a partire dal titolo.

A fine lettura, mi ritrovo sorpresa da come il senso di questa dedica possa sposare il senso del libro, in un certo senso (e mi scuso per il trasbordare di “senso” in cui a quanto pare sono andata a cadere).
Il libro è una sorta di memoir che parte dall’infanzia, segnata dagli irriverenti anni ’70 e da un importante difetto di vista, e attraversa con salti avanti e indietro nel tempo l’esistenza della scrittrice.
La persona che nasce attraverso questo libro è bella, perché è una persona che diventa finalmente un tutt’uno con il suo corpo. Quel preciso corpo è suo da sempre, eppure la scrittrice ne riesce a prendere “pieno possesso” solo attraverso ciò che altri hanno inciso proprio lì, nel suo corpo fisico, familiare, sociale. Al centro il rapporto con la madre, la nonna, il padre poco presente ma determinante (come sempre) e due continenti, in un walzer di vita e di morte, reale e apparente.

C’è un apice, un punto di non ritorno, che è quello in cui

“finalmente, dopo un lungo periplo, ci decidiamo ad abitare il corpo in cui nasciamo, con tutte le sue particolarità e a renderci conto che in fin dei conti è l’unica cosa che ci appartiene e ci vincola in modo tangibile al mondo, e insieme ci permette di distinguercene”.


(nel testo in prima persona, ndr)

Il viaggio per arrivare fin qui, in un continuo rimbalzare, slabbrare, richiudersi e rispalancarsi di confini fisici e invisibili è quello che fa di noi “bellezza”. La bellezza fatta persona. Visibile, tangibile, corporea e mai perfettamente afferrabile nel momento presente.
Non è un viaggio semplice, quello che ci porta a sentirci un tutt’uno con il nostro corpo, fino a regalarci la libertà della consapevolezza che il “corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo“, eppure in quel corpo siamo nati proprio noi. E solo noi.

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sinapsi letterarie
è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.

Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé. Un libro chiama l’altro

Harper Lee Jean Teulé - Un libro chiama l'altro

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Cos’è la folla oltre la somma delle individualità? Cosa è il pensiero quando perde l’originalità e la responsabilità del singolo? Cosa ne consegue è, forse, sempre tragedia.

Attycus Finch, eroe tragico nel romanzo “Il buio oltre la siepe” dell’ineguagliabile Harper Lee (edizioni Feltrinelli) mi richiama alla mente Alain de Monéys e la sua storia (vera) raccontata in “Vita breve di un giovane gentiluomo da Jean Teulé (edizioni Neri Pozza)

Due libri da leggere, al tempo in cui abitiamo i social media. O meglio, in ogni tempo abitato da esseri umani.

A giugno è ricorso il quarantesimo anniversario del premio Pulitzer per la narrativa a Harper Lee con il “Il buio oltre la siepe”.
Un libro necessario , come definito da Barack Obama, che ben prima di essere il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America è stato un community organizer a Chicago, lavorando sull’emancipazione e la presa di coscienza dei propri diritti da parte della comunità afro-americana.

Vero, un libro bello, semplice nella sua bellezza come sanno essere solo i libri capaci di colpire, affondare e far tornare a galla l’umanità profonda e complessa che ci abita e ci muove e ci collega.

Da sempre indicato come un libro da leggere contro ogni forma di discriminazione e razzismo, “Il buio oltre la siepe” mi sembra un universale, godibilissimo, sulla natura umana, sulle divisioni e gli steccati che per nostra natura costruiamo e che, per dinamiche sociali, ingigantiamo fino a istituzionalizzarli scientemente o ad assimilarli inconsciamente arrivando ad abdicare scelleratamente alla nostra capacità critica e morale.

“Il buio oltre la siepe” e le lanterne umane

Esistono delle lanterne umane. Gli Atticus Fynch che incontriamo o manchiamo nelle nostre vite, che sono vigili e accese nella nostra società e che permettono che la loro lucetta arrivi anche a noi per propagazione. E le cinghie di trasmissione luminosa sono spesso le più giovani generazioni. Quello che ascoltano, quello che vedono, quello che non capiscono e le interpretazioni che vengono loro proposte dei fatti sono, in gran parte, ciò che in una società fa la differenza per il presente e per il futuro.

La piccola Scout Fynch è colei che, insieme al fratello Jem, nel romanzo di Harper Lee raccoglie la fiammella di una lanterna “gigante” che è il suo papà Atticus Finch. Avvocato. Rispettatissimo avvocato a Maycomb, città “vecchia e stanca” nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America, che si ritrova l’intera comunità contro per aver accettato di assumere la difesa di Tom Robinson, giovane dalla pelle nera accusato di stupro da una giovane dalla pelle bianca. Una figura che mi fa venir voglia retroattiva di fare l’avvocato. Per la sua interpretazione della professione e la sua pratica. Leggere per credere.

Il libro è superlativo da numerosi punti di vista e profondamente emozionante, ma è della sinapsi inaspettata che mi ha attivato che vorrei parlare. Partiamo della scampata aggressione ad Attycus da parte di un manipolo di cittadini di Maycomb, a cui i figli si trovano ad assistere.

In particolare, la figlia Scout “sventa” l’aggressione riconoscendo tra gli aggressori il signor Cunningham, il papà di un suo compagno di scuola. Candidamente identificandosi come “la compagna di scuola e colazioni di suo figlio Walter” getta in crisi d’identità l’aggressore. (Sono il papà di Walter, amico di Scout, figlia di Attycus e sono qui l’aggressore, ciecamente arrabbiato con Attycus!).
Quando, il giorno seguente, la bambina stupita chiede al padre come sia possibile che tra gli assalitori ci fosse l’amico di famiglia ed estimatore di Attycus, il signor Cunningham, la risposta di Attycus è un trattato di antropologia e misericordia, che forse è l’unico binomio che ci salverà dal baratro.

Scout “Credevo che il signor Cunningham fosse un nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era”.

Attycus “E lo è ancora!”
S “Però stanotte voleva… farti del male”

A “Il signor C. È un brav’uomo, ma come tutti noi ha le sue debolezze”.
Jem (fratello di S.) “Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione stanotte ti avrebbe persino ucciso”.

A “Avrebbe potuto farmi qualcosa, ma figliuolo quando sarai più grande capirai un po’ meglio la gente. Una folla è fatta di individui, quali che siano. Stanotte C. faceva parte di una folla ma era pur sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo… anche se ciò non li scusa, ti pare?”.

J “Direi di no”

A “E infatti c’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli tornare in sé!” “Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini. Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che W. C. si mettesse nei miei panni per un attimo, e ciò è bastato”.

La risposta di Attycus racchiude la chiave antica dei nostri misteri di grandezza e redenzione, non importa in quale pozzo di bassezza siamo andati a cadere, nelle azioni, nelle opere e nelle omissioni. La chiave è l’empatia e soprattutto ciò che ne consegue. Chiave di volta, in questi tempi di profonda violenza verbale a cui non raramente fa seguito violenza fisica e di cui la sfera social sembra ergersi ad arena senza confini. Arena in cui siamo immersi che promette interconnessioni e, bolla su bolla, finisce talvolta per edificare muri.

Leggendo questo passaggio, il richiamo a ciò che succede in quelle dinamiche che fanno dei social una sorta di violenta cloaca sociale è stato pressoché immediato, insieme al richiamo di un libro precedentemente letto, meno celebre de “il Buio oltre la siepe, ma comunque un piccolo capolavoro (nel suo genere). Se fossi un’insegnante proprio in questi anni ne farei un testo di lettura obbligata.

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé

“Vita breve di un giovane gentiluomo”
Mangez-le si vous voulez

“Il buio oltre la siepe” mi ha chiamato alla mente “Vita breve di un giovane gentiluomo” di J. Teulé, edito in Italia nel 2011 da Neri Pozza, dal titolo originale molto più appropriato (come quasi sempre succede con i titoli originali) “Mangez- le si vous voulez”, ovvero “Mangiatelo se volete”. Crudo quanto la storia reale che racconta.

La giornata del 16 agosto 1870 per Alain de Monnéys è davvero una giornata campale. Esce di casa da stimato cittadino e benvoluto vicesindaco di Bessauc nel Perigord francese, e non vi farà mai ritorno perché letteralmente mangiato dalla folla dei suoi concittadini.
Scrittura superba in una cronaca che sembra sempre sull’orlo di provocare un sorriso, se non fosse che esplode a un certo punto in un vero delirio tragico.
Alla base del rivolgimento del sentimento popolare verso il giovane Alain, una voce diffusasi tra la folla (mi verrebbe da dire in rete, ma ops siamo nel 1870) di una sua defezione a favore dell’esercito prussiano (contro cui si era arruolato) e di atti di conclamata infedeltà all’imperatore. Voci. Non verificate. Che il lettore sa essere false. Ma impotente, come il protagonista, assiste al montare della rabbia cieca (ma è poi rabbia la parola giusta?) della folla e alla sua azione violenta e omicida fino a sfociare in episodi di vero e proprio cannibalismo.

Mangez-le si vous volez” è l’invito provocatorio del semi-attonito sindaco, che viene preso alla lettera dai suoi concittadini in un vortice di inspiegabile violenza e follia omicida. Talmente inspiegabile che durante il processo, che vedrà pochi tra i facinorosi sul banco deli imputati (usiamo facinorosi solo convenzionalmente perché si fa fatica a trovare parole adatte al caso), uno tra loro dirà forse l’unica verità plausibile “Non so cosa mi sia preso”.

Su questo non sapere, e su quello che ci prende quando ci alieniamo da noi stessi – e dagli altri che poi è solo l’altra faccia della medaglia del fenomeno – si giocano le sorti dei singoli che ci passano accanto e del mondo intero, sui social e nelle nostre realissime giornate.

Pensiamoci. E se può aiutare leggiamo e facciamo leggere questi due libri, necessariamente sconvolgenti.

Non riuscirai mai a capire le persone…

PS: “Il buio oltre la siepe” mi è stato regalato da una tra le persone che più stimo, mia amica e al tempo collega. Nella sua dedica il senso.

“…non riuscirai mai a capire le persone se non ti metterai nei loro panni e proverai a vedere le cose dal loro punto di vista…”

con grandissimo affetto

Maria

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“L’acqua del lago non è mai dolce” chiama “Ricordi della mia inesistenza”. Un libro chiama l’altro

Copertina Caminiti Solint

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Volevo scrivere de “L’acqua del lago (che) non è mai dolce” ma poi ho incontrato Rebecca Solnit e i suoi “Ricordi di inesistenza”

Quanti modi abbiamo di diventare noi stesse: tanti e probabilmente nessuno troppo facile.
Quanto conta il posto dove siamo, quello dove scegliamo di andare o di stare nel periodo della muta, che dura anni o decenni o forse tutta la vita.
Di certo c’è un tempo, un modo e un luogo in cui decidiamo, non chi voler essere ma a quale lato di noi dare un’opportunità, quale coltivare, quale far crescere per poi in un tempo futuro andare a raccogliere la restante parte, missione quest’ultima altrettanto avvincente.

C’è un tempo nella nostra vita in cui saremo integre, ma in quello che io chiamo il tempo della muta ci centriamo su una parte di noi stesse che noi eleggiamo a nostro centro, da cui la nostra evoluzione prenderà forza energia propulsiva per il resto della nostra vita (con i nostri inevitabili stop and go).
Una specie di centro karmico se volete, il nostro Io, quella particolare combinazione di neuroni, cellule ed emozioni che darà la direzione alla nostra evoluzione di donne. E ci sono posti in cui consapevoli ci dirigiamo e a volta stanziamo che assistono al travaglio, fino al parto di noi stesse. Perché qui parliamo di donne e di un “moto” a noi stesse. Alla nostra identità situata.

Essere una donna è una discriminante? Si lo è


Lo è stata per le generazioni precedenti alla nostra, e lo è oggi, su intensità e passaggi diversi, forse, o forse neanche troppo diversi. E’ giusto che lo sia, perché siamo diverse, il punto è capire in che modo. Se a modo nostro o no.

Cosa succede in questo tempo, in questo luogo, in questo moto è il centro di due storie che senza volere si sono sovrapposte nelle mie letture recenti ( e nelle mie sinapsi letterarie).

Una rossa Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, di Giulia Caminito (tra i candidati Premio Strega 2021, edito da Bompiani) e un’immensa Rebecca in “Ricordi della mia inesistenza” Rebecca Solnit (edizioni Ponte alle Grazie).

L'acqua del lago non è mai dolceRicordi della mia inesistenza

Gaia, e l’acqua del lago che non è mai dolce

In “L’acqua del lago non è mai dolce”, una bambina, poi adolescente, poi giovane adulta si muove tra Roma e la sua provincia, nello specifico Anguillara Sabazia e i borghi attorno al lago di Bracciano, alla ricerca sofferta e rabbiosa di sé. Interessante per me la vicinanza dei luoghi alla mia residenza attuale e l’impenetrabilità del personaggio, piuttosto monolitico e ostinato, da apparire quasi monodimensionale pur lasciando intuire spiragli di dolore e debolezza profondissima. Incapacità di leggersi e di tradursi, di offrirsi all’esterno, nelle amicizie, negli amori, seppur adolescenziali, nelle passioni, praticamente inesistenti. Un personaggio che mi piacerebbe interpretare teatralmente, per il non detto e per quanto si può di questa rossa intuire dalla sua apparente non relazione con gli elementi del contesto: dalla famiglia, disperata ma ostinata nella sua sopravvivenza a conduzione matriarcale, alle amiche del cuore, alleate strumentali alla sopravvivenza, agli amori costruiti e a quelli – suo malgrado – impossibili da reprimere, grimaldello della sua identità.

Rebecca, e i ricordi di inesistenza di tutte noi che poi abbiamo scelto di esistere

Rebecca Solnit racconta se stessa, negli anni dell’esplorazione di sé e della scoperta e della formazione di questo pensiero coraggioso, dissacrante e profondamente innovativo, che si dispiega e si forma nei ”Ricordi della mia inesistenza”.
Per me qui il sottotitolo è “Storia di una libertà”. Non nasciamo libere, ma lo diventiamo. Per alcuni è più difficile,. Per le donne il percorso verso la libertà personale ha più ostacoli, che si aggiungono a quelli sacrosanti che ciascuna persona, a prescindere dal genere ha.
Attraverso i suoi ricordi Rebecca Solnit ci racconta come è arrivata a fare il lavoro di giornalista, saggista, intellettuale, documentarista che fa e soprattutto come è arrivata a farlo nel modo che è suo, che le appartiene. Come è diventata la donna che è: viaggiatrice, pensatrice, ironica, acutissima, con le relazioni che ha scelto di avere e quelle che non ha voluto sedimentare.
Nel farlo ci racconta la San Francisco degli anni ’70 fino a quella degli anni ’90, vissuta in prima persona tra i centri culturali d’avanguardia e i movimenti per i diritti civili, lontano dal presidio della cultura più intrisa di occidente che nella Est Coast sembrava strizzare l’occhiolino all’Europa.
Nel raccontare il suo lavoro di ricerca sulle comunità artistiche degli anni ‘50 ci racconta pezzi di storia che spesso mancano alla narrativa sulla mitica West Coast, e portandoci nei suoi viaggi nel deserto del Nevada e o al Sud nel Mexico ci racconta una battaglia ambientalista attraverso uno sguardo pionieristico e genuinamente alternativo.

La sua storia è la lettura immersiva ed esperienziale di un contesto in fermento con gli occhi profondamente intelligenti di una donna, che diventa femminista per presa di coscienza.

Alcuni libri si mangiano

Questo è quello che io chiamo un libro da “mangiare”, perché è nutriente e fa bene. Da regalare alle persone in cerca di identità e soprattutto a chi sta rischiando di perderla nel conformismo o nello scoraggiamento di questi nostri giorni.

Non rimpiango (quasi) mai le mie letture, come le mie esperienze. Però non tutti i libri vanno nel mio scaffale dei “libri che amo”, ancor meno in quello dei necessari.

Rebecca Solnit* con i suoi “Ricordi della mia inesistenza” c’è, e ci resterà.

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*Rebecca Solnit , per rendere l’idea, è quella del mansplaining, o meglio – come lei racconta – fu un lettore del suo celeberrimo saggio “Gli uomini mi spiegano cose” a coniare questo neologismo per identificare il fenomeno da lei individuato e descritto, quando ahimé ne eravamo già afflitte senza averne sufficienza coscienza. Il saggio è del 2008, il New York Times ha eletto “mansplaining” parola dell’anno nel 2010 e nel 2014 è il termine è entrato nel dizionario.

#unlibrochiamalatro
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L’estate in cui ho fatto pace con l’estate. Itinerari tra Gargano, Ponza e Isola d’Elba

 Ho scelto di fare le vacanze in Italia, al mare, sotto il sole splendente e sono una sopravvissuta felice.

Ponza al vento – foto @caffeconrose (agosto 2020)

Mi è tornato il desiderio di mare in estate, dei suoi colori, odori, luce e calore sulle pelle, non solo nelle ore della sera. Del suo vagare in costume e ciabatte e capelli di sale, in ogni angolo di isole e promontori. Del suo richiamo a immergersi in acque corpose e a seguirne per ore le onde, raffreddando i pensieri sotto il sole rovente. 

Chi ha un’anima novembrina come la mia, certificata alla nascita, può capire cosa ciò significhi. Chi frequenta gli archetipi delle divinità femminili, altrettanto: un ritorno a celebrare Afrodite, nella luce accecante dell’estate mediterranea.

E’ stata una bellissima estate.

Qui sotto qualche impressione in più raccolta nel mio girovagare marino di questa estate 2020, estiva come non capitava da anni.
(NB: Non scrivo qui riferimenti a strutture ricettive e similia, ma se avete curiosità scrivetemi pure e vi risponderò).  

Luglio 2020 – Gargano – Puglia 


La mia estate marina è cominciata con una settimana nel Gargano, a luglio. Camping, con possibilità di appartementini (noi abbiamo scelto quest’ultima opzione).  Immersi nel verde, struttura dalle atmosfere gipsy anni ’70, no linea del telefono, wi-fi abbastanza debole da desistere se non strettamente necessario. Spiagge bianche di sassolini, rocce luminosissime, sovrastate da pinete profumate di mediterraneo, cielo azzurro, dorato e screziato di rame e argento la sera. Acqua che trattiene colori e odori di tutto questo. 

Lunghissimi bagni in acque cangianti, escursioni mistiche in canoa nelle grotte della costa, trekking con panorami azzurro- verde-marrone. Ovunque luce. Pasti a base di pesce, pane e pomodoro, pane cotto, formaggi e carni di ogni spessore. Borghi e loro abitanti che celebrano il risveglio estivo (entro le misure del Covid), pur mantenendo integro il loro cuore piuttosto chiuso e a tratti vicino all’inverno, per chi sa ben guardare.

Cose “Coffee N’Roses” – Gargano: Spiagge – Vignanotica, Baia di Campo (altre molto promettenti ma chiuse per Covid: Sanguinara, Pugnochiuso); Trekking – Sentiero dell’amore (partenza da Vignanotica); Paesi: Rodi Garganico e la strada per arrivarci al tramonto su tutto il resto; Cibo: pane e pomodoro e pane cotto in vetta seguiti da polpo in tutte le salse; Accessori: da portare ciabattine per spiagge di sassolini appuntiti, per una volta la TRE che non prende mai, figuriamoci lì.  Nota: il Gargano lo abbiamo esplorato anche d’inverno, precisamente a Capodanno. Se siete anime profondamente invernali merita moltissimo in quella stagione… ma ops,  qui stiamo parlando di estate. 

Agosto 2020 – Isola di Ponza – Lazio 

Le isole in agosto sono state per un po’ “l’ultimo posto nella classifica delle vacanze che vorrei”. Eppure respirare l’aria di un’isola ormai miticamente estiva, impregnata di colori pastello acceso, voci di gente allegra e volti segnati dal sole, ottime cene e fiumiciattoli di vino nelle vene, per tre giorni, mi ha fatto bene. Avevo girato l’isola e le sue baie in barca anni prima e avevo apprezzato, ma quest’anno non abbiamo preso barca, e l’abbiamo vissuta a ritmo lento, a partire dalla sua zona alta Villaggio dei Pescatori. Di Ponza mi ha fatto bene l’atmosfera estiva all’ennesima potenza, ma anche quella luce apparentemente educata del Tirreno che tuttavia si imprime a livelli profondissimi, come se emettesse radiazioni capaci di raggiungere e far risuonare le migliori vibrazioni, non importa dove siano andate a nascondersi.

Cose “Coffee N’Roses” – Ponza: Il Villaggio dei Pescatori e l’hotel dalle casette color pastello in cui dormivamo; la colazione in terrazza con la maga Circe che continua a sognare davanti ai nostri occhi pieni di azzurro (tradotto: si è molto vicini al Promontorio del Circeo); il mare onnipresente, le piscine naturali la sera; Chiaia di Luna al tramonto (anche se non si può scendere in spiaggia); il giri in taxi tra i luccichii del verde isolano prima del tramonto; gli spaghetti ai gamberi rossi e il vino, tutte le sere; la frittura di calamari e la birra  ghiacciata tra gli odori salmastri; le targhe sui palazzi colorati che raccontano la storia dell’isola oltre le settimane di agosto; le barche piccole dei pescatori, ciascuna con il suo nome, al porto, di notte prima di salpare. 

Agosto 2020 – Isola d’Elba – Toscana 


L’isola d’Elba mi chiamava a sé dalle elementari, quando fantasticavo dell’esilio napoleonico e già la mia natura introversa un po’ ne invidiava le sorti. Quest’anno ci sono andata in estate e ne ho respirato le meraviglie. L’Isola d’Elba mi è piaciuta molto; per esser stata su un’isola ad agosto, mi ha sorpreso quanto io sia stata bene circondata dalle sue acque, coccolata dai suoi colori, mai gridati, ma soffici, eleganti, intensi, profondi al punto giusto. Originali. Questo è il tratto dell’Elba che mi porto dietro: il suo essere un’isola con un modo  tutto suo di esserlo. Facendo l’occhiolino all’antropologia isolana e toscana allo stesso tempo, con quel pizzico di rudezza e imprevedibilità d’animo che hanno sempre e dovunque i marinai ma con quella inalienabile consapevolezza della propria bellezza che rende i toscani tali.  Nuotare, nuotare, nuotare e aspettare il tramonto in semi solitudine sulle scogliere accanto alle più famose spiagge stracolme, qualcosa da provare. Viaggio on the road con la mia amica di viaggi on the road, camping in tenda a Cavo, la meno gettonata dell’isola, perciò a me molto cara. Camping  spartano ma con piazzole super, a mo’ di giardinetto privato, immerso nel verde, lontano dalla confusione inevitabile. Dei colori del mare e del nuotarci dentro, non posso dirvi molto se non che la mia esperienza è stata di nuotare, osservare, respirare l’argento. Per me l’Isola d’Elba è l’isola d’argento e chi ama i toni freddi sa come questo possa risuonare internamente. Anche il rumore dell sue onde, mai fragoroso, mi richiama ancora nel ricordo a un ridere argentino. 

Assolutamente da girare in macchina, da godere del suo vino bianco,  freddo e delle cene di pesce fino a non poterne più, se mai “non poterne più” fosse una condizione realizzabile, nelle serate che sono solo la continuazione delle giornate di sole, che sono la continuazione delle nottate di stelle.

Cose “Coffee N’Roses” – Isola d’Elba: Ie belle case mai volgari, riecheggianti di passato e a lui fedeli nelle architetture e nelle posture; i tramonti dovunque, qualsiasi sia la luce, il più bello, di un arancio freddo, riscaldato di rame sulle scogliere di Cottoncello; la vista da Monte Capanne per affogare d’azzurro (se volete arrivarci in cabinovia calcolate la fila, lunga e calda ad agosto, poi 20 minuti per salire e altrettanti per scendere, mentre a piedi il percorso di trekking – dicunt – è di scarse 3 ore); il rosa di Portoferraio, le scogliere bianco ghiaccio accanto alla gettonatissima Fetovaia, gli gnocchi alle uova di pesce in veranda sulla spiaggia  delle Forcelle, il chioschetto d’antan nella spiaggia di Topinetti, il gelato sul lungomare a Cavo, la gita in bici da Cavo a Rio Marino (bici fornite dal campeggio), le stradine e i panni stesi ad asciugare, profumatissimi di Rio Marino.
Cose per la prossima volta – Per acclamazione popolare, aggiungo qui l’isola di Pianosa e le sue acque, dicono quintessenza della bellezza delle acque marine, a cui però non è facile arrivare in agosto, perché l’agenzia che organizza la gita in barca, unica nell’isola (almeno da quanto siamo riuscite a sapere) da copione ha le prenotazioni già piene da tempo. Mio personale rammarico non aver familiarizzato sufficientemente con l’anima mineraria che connota l’isola, pur avendola fortemente intuita attraverso le rocce e i richiami costanti alle miniere e alla vita dei minatori.

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Amo talmente l’autunno da non poterne parlare, come per un amante di cui non si possono metter in piazza dettagli di assoluta intimità.
Ho bisogno, ogni anno, di scendere nell’inverno, nel suo silenzio, nel suo caldo artificiale che mi da il senso del freddo con cui tutti conviviamo a certe latitudini dell’esistenza.
La primavera… scusate sono umana, non posso non essere travolta dal suo risveglio delicato e inesorabile, in ogni angolo del globo (a emisferi alternati) .

Con l’estate ho un problema.  L’estate mi da gioia e luce a dismisura, talmente fuori misura  che negli anni ha creato qualche imbarazzo.
Il caldo mi stordisce, nel  senso vero del termine, e non necessariamente positivo. 

Nelle sere di amarcord con le mie amiche di gioventù, si narra ancora di mitologiche insolazioni nel bel mezzo di vacanze studio a Malta, al largo del mare delle Canarie nel corso di coraggiose esplorazioni in canoa a mezzogiorno d’agosto, come di boccheggianti escursioni nei deserti dell’Africa del Nord e di corpi color aragosta su indimenticate corriere blu anni ’90, di ritorno da sfrontate giornate di mare, spiaggia libera, senza ombrellone. 

Con l’età che amiamo chiamare della maturità – decidete voi quando inizia, perché personalmente ho perso memoria dell’ingresso – ho iniziato a scegliere sempre più vacanze autunnali, anche nel cuore dell’estate, paesi freddi o emisfero opposto, per poi incontrare le mie amiche al ritorno e raccontarci le nostre estati spesso diametralmente opposte davanti a una pizza romana settembrina, maglietta di filo – maniche lunghe.

Insomma, ho un problema con l’estate: mi manda in estasi a guardarla,  ma esistenzialmente ho sempre avuto l’impressione di non averne pieno accesso, se non dopo le ore 18.  Come tutto nella vita, non è un problema solo fisico, anche se  è il fisico mandare i primi segnali di allarme: “soggetto poco resistente all’estate”

Buon autunno, a chi legge ora , sul finire dell’estate. 

Lizzie di Shirley Jackson

Quando perdo lucidità o interesse nell’osservazione delle persone reali, per non essere contagiata dal mio stesso pessimismo antropologico (latente ma vigile), mi giro a guardare le persone che incontro nei libri, facendo finta che non siano ancora più reali di quelle che incontro fuori.  Così in questi giorni  mi capita di concentrarmi su una mia “lunga” conoscenza: Lizzie di Shirley Jackson, incontrata mesi or sono nell’omonimo romanzo.

Dico lunga perché questo libro l’ho molto desiderato, ho girato diverse librerie prima di trovarlo disponibile, ho iniziato a leggerlo con grande entusiasmo e curiosità verso questa ragazza apparentemente svampita e regolare, ma a un certo punto Lizzie ha iniziato a infastidirmi. E quindi non sono riuscita a leggere la sua storia, se non a piccole dosi. Risultato: l’ho finito solo qualche giorno fa. 

Pensando a Shirley Jackson, alla sua scrittura e poi guardandola negli occhi (in foto), ho avuto da subito l’impressione di essere davanti a un’anima gotica e immaginifica, con una punta di ironia da non sottovalutare mai. 

Avevo letto “Abbiamo sempre vissuto nel castello”  e mi aveva letteralmente deliziata, avevo degustato  ogni giorno, come in un rituale tè corretto all’alcool puro, quella dissonante armonia familiare quotidianamente celebrata in un ambiente che prometteva radiosità e restituiva mistero. 

Lizzie, no. Non sono riuscita a frequentarla se non a piccole dosi. La sua personalità caleidoscopica e violentemente screziata, divisa nelle sue quattro ragazze –  Elizabeth, Beth, Betsy, Bess – mi ha restituito la percezione interiormente distopica di una personalità, disintegrata ma potentissima.

Questo è quello che mi è piaciuto di Lizzie, nel suo essere disturbante: la potenza. Il suo imporsi, in una vera e propria tragedia personale dell’identità, senza scendere a compromessi e mediazioni con se stessa, senza possibilità di ricomporsi,  senza volontà in fondo di ricomporsi,  nella purezza di ogni singola persona che abita il suo essere.

Così mi ha colpita nell’anima questa Lizzie molteplice, incapace di generare alcuna forma di equilibrio, per quanto posticcio, in se stessa che le permettesse di continuare a vivere in società, pur a suo modo provandoci.

Per questo, il finale mi ha fatto piangere. 

L’annullamento di una identità disturbante, nei suoi chiaroscuri violenti,  in una ricomposizione pacifica, armoniosa e  quasi amabile, talmente vuota da poter essere riempita dalle proiezioni dei suo assassini benefattori, il dottor Wright e la zia Morgen.

Così si celebra la vittoria di un terapia appassionata e movimentata, mossa dall’umana buona fede e sostanziale benevolenza di medici e familiari,

Alla fine Lizzie non c’è più, ma io penso che altrove tornerà. 

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Piccola nota ( e un film in arrivo)

“Lizzie” è un  romanzo di Shirley Jackson del 1954, edito in Italia da Adelphi.
Da “Lizzie” è stato tratto il film “La donna delle tenebre”, di Hugo Haas con l’interpretazione di Eleonor Parker. Io non l’ho visto, ma conto di recuperare.

Shirley Jackson nasce a San Francisco nel 1916, sotto il segno del Sagittario. Vive e scrive per vent’anni in un villaggio del Vermont, North Bennington con il marito e i tre figli. Qui muore nel 1965.
A Shirley Jackson è ispirato il film Shirley che, diretto da Josephine Decker con Elizabeth Moss, ha debuttato quest’anno al Sundance Film Festival, e pare che uscirà (speriamo on line) il 5 giugno.
PS se siete curiosi di vedere il volto di Shirley Jackson (l’originale), qui un assaggio di immagini da Google.