“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel chiama “Il caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel. Un libro chiama l’altro

Guadalupe Nettel Tiffany McDaniel

#unlibrochiamalaltro sinapsi letterarie ***

“Il caos da cui veniamo” / “Il corpo in cui sono nata” .

“Da cui” / “in cui”: c’è come un azzeramento di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzionalità in avanti ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e (forse) parzialmente ci sopravviveranno attraverso altri.

Il caos e il corpo, fenomenologia delle radici

A fine ferie mi capita di passare delle giornate nella “mia” casa di famiglia: dove io sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori, dove sono vissuti i miei nonni che fino all’anno scorso erano presenti, tramandati attraverso il corpo, i ricordi e i molti decenni di vita di mia nonna.
In questa casa, in questi giorni, ci siamo io e mio fratello.

Ma le radici hanno una strana fenomenologia. Quando trovano il vuoto iniziano ad emergere, più forti, prepotenti, inevitabili.
Per questo, questi giorni di assenza, sono pieni di presenza. Ed è strano come alla fine dei cortocircuiti di memoria che mi attraversano, mentre salgo le scale, mentre cerco nei cassetti, mentre guardo come da quarantadue anni a questa parte fuori dalla finestra, verso la piazza del paese, io mi incontri a ritroso con me stessa.

Immagino che, per vie e vite personali, questo sia il percorso che Tiffany McDaniel abbia ripercorso ed esplorato, scandagliato con enorme onestà e amore nel suo bellissimo libro “Il caos da cui veniamo“, ispirato alla storia di sua madre. Letto con passione già qualche tempo, mi è stato richiamato alla mente dalla più recente lettura de “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel (più famosa per il suo “La figlia unica)

La semantica di entrambi i titoli è molto potente: il primo libro mi ha attratto tantissimo proprio a partire dal titolo, il secondo è stato in realtà un regalo. Questo accendere le preposizioni di moto da/in luogo nel viaggio della vita è una scelta di grande consapevolezza e coraggio.
“Da dove” / “in cui”. C’è come un azzeramento percepito di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzione in avanti: ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo, di qualcosa che è successo lì e non si sposterà altrove. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e forse parzialmente ci sopravviveranno in altri.

L’uso appropriato e consapevole di queste preposizioni nella grammatica dell’esistenza è una fondamentale conquista, che non può che esserci regalata da esperienza, coraggio e visione, in relazione assolutamente personale e non matematica con la nostra età che avanza. (E non sono affatto sicura che sia poi una conquista di tutti/e)
Il momento della vita in cui ne prendiamo consapevolezza è un momento fondante, di grande liberazione. Il momento in cui diamo voce alla nostra scoperta, puntuale e al tempo stesso sequenziale e rinnovata nel tempo, e scegliamo di raccontare, come hanno scelto di fare le due scrittrici, è un momento di grande poesia.

Per questo “Il caos da cui veniamo” e “Il corpo in cui sono nata” sono due libri di prosa, due memoir se vogliamo, intrisi di questa poesia. Di questa forza propria della “poiesis” che ci forgia, nella genetica e dunque nei nostri tratti somatici come nella nostra cifra esistenziale e nella sintesi travagliata delle cose che si chiama “identità”.
Le radici sorreggono chi siamo e gli danno forma, oltre la forma.
Questa sono io, perché vengo “da” e sono nata “in”. Questa qui sono io.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel chiama “Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel

“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel la scrittura di una esploratrice cosmica


“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel, edizione Atlantide è diventato uno dei miei libri del cuore. Confesso di averlo scelto a caldo per il titolo, non avevo mai letto nulla di questa scrittrice (la bella edizione Atlantide ha probabilmente avuto un ruolo nella scelta tra gli scaffali della Libreria ELI, tra le mie preferite a Roma).
Una poesia, una purezza, un’eplorazione profondissima e avvincente.
Un libro tragico che finisce per decantare la vita. De-cantare, osservarla quando sembra stagnare, putrefarsi e lasciarsi tuttavia incantare dalla scintilla originaria. Dedicato alla figura della madre dell’autrice, “l’Indianina”, che ne è anche la protagonista (Bitty), il libro è illuminato dalla smisurate figure di un padre e una madre in un dualismo delle origini che non può che accompagnarci nella ricerca, a ritroso, di chi siamo. Nella ricerca, che non culminerà nella comprensione ma nell’amore, di quel caos originario che ci ha partorito come stelle impazzite di luce e tragedia.

“Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto di irrequietezza. In fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio.
Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Si, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo”.

E non importa in questo libro quanto sia fantastico e quanto sia reale. C’è dentro verità.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel ovvero “la bellezza fatta donna”

Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel, edizione La Nuova Frontiera mi è stato regalato con una dedica che recitava: Alla bellezza fatta donna”.
La dedica mi ha fatto sorridere, perché avevo intuito una misconcezione di base da parte del “donatore di libri” (che mantengo per sua richiesta anonimo) proprio a partire dal titolo.

A fine lettura, mi ritrovo sorpresa da come il senso di questa dedica possa sposare il senso del libro, in un certo senso (e mi scuso per il trasbordare di “senso” in cui a quanto pare sono andata a cadere).
Il libro è una sorta di memoir che parte dall’infanzia, segnata dagli irriverenti anni ’70 e da un importante difetto di vista, e attraversa con salti avanti e indietro nel tempo l’esistenza della scrittrice.
La persona che nasce attraverso questo libro è bella, perché è una persona che diventa finalmente un tutt’uno con il suo corpo. Quel preciso corpo è suo da sempre, eppure la scrittrice ne riesce a prendere “pieno possesso” solo attraverso ciò che altri hanno inciso proprio lì, nel suo corpo fisico, familiare, sociale. Al centro il rapporto con la madre, la nonna, il padre poco presente ma determinante (come sempre) e due continenti, in un walzer di vita e di morte, reale e apparente.

C’è un apice, un punto di non ritorno, che è quello in cui

“finalmente, dopo un lungo periplo, ci decidiamo ad abitare il corpo in cui nasciamo, con tutte le sue particolarità e a renderci conto che in fin dei conti è l’unica cosa che ci appartiene e ci vincola in modo tangibile al mondo, e insieme ci permette di distinguercene”.


(nel testo in prima persona, ndr)

Il viaggio per arrivare fin qui, in un continuo rimbalzare, slabbrare, richiudersi e rispalancarsi di confini fisici e invisibili è quello che fa di noi “bellezza”. La bellezza fatta persona. Visibile, tangibile, corporea e mai perfettamente afferrabile nel momento presente.
Non è un viaggio semplice, quello che ci porta a sentirci un tutt’uno con il nostro corpo, fino a regalarci la libertà della consapevolezza che il “corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo“, eppure in quel corpo siamo nati proprio noi. E solo noi.

#unlibrochiamalatro
sinapsi letterarie
è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.

Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé. Un libro chiama l’altro

Harper Lee Jean Teulé - Un libro chiama l'altro

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Cos’è la folla oltre la somma delle individualità? Cosa è il pensiero quando perde l’originalità e la responsabilità del singolo? Cosa ne consegue è, forse, sempre tragedia.

Attycus Finch, eroe tragico nel romanzo “Il buio oltre la siepe” dell’ineguagliabile Harper Lee (edizioni Feltrinelli) mi richiama alla mente Alain de Monéys e la sua storia (vera) raccontata in “Vita breve di un giovane gentiluomo da Jean Teulé (edizioni Neri Pozza)

Due libri da leggere, al tempo in cui abitiamo i social media. O meglio, in ogni tempo abitato da esseri umani.

A giugno è ricorso il quarantesimo anniversario del premio Pulitzer per la narrativa a Harper Lee con il “Il buio oltre la siepe”.
Un libro necessario , come definito da Barack Obama, che ben prima di essere il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America è stato un community organizer a Chicago, lavorando sull’emancipazione e la presa di coscienza dei propri diritti da parte della comunità afro-americana.

Vero, un libro bello, semplice nella sua bellezza come sanno essere solo i libri capaci di colpire, affondare e far tornare a galla l’umanità profonda e complessa che ci abita e ci muove e ci collega.

Da sempre indicato come un libro da leggere contro ogni forma di discriminazione e razzismo, “Il buio oltre la siepe” mi sembra un universale, godibilissimo, sulla natura umana, sulle divisioni e gli steccati che per nostra natura costruiamo e che, per dinamiche sociali, ingigantiamo fino a istituzionalizzarli scientemente o ad assimilarli inconsciamente arrivando ad abdicare scelleratamente alla nostra capacità critica e morale.

“Il buio oltre la siepe” e le lanterne umane

Esistono delle lanterne umane. Gli Atticus Fynch che incontriamo o manchiamo nelle nostre vite, che sono vigili e accese nella nostra società e che permettono che la loro lucetta arrivi anche a noi per propagazione. E le cinghie di trasmissione luminosa sono spesso le più giovani generazioni. Quello che ascoltano, quello che vedono, quello che non capiscono e le interpretazioni che vengono loro proposte dei fatti sono, in gran parte, ciò che in una società fa la differenza per il presente e per il futuro.

La piccola Scout Fynch è colei che, insieme al fratello Jem, nel romanzo di Harper Lee raccoglie la fiammella di una lanterna “gigante” che è il suo papà Atticus Finch. Avvocato. Rispettatissimo avvocato a Maycomb, città “vecchia e stanca” nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America, che si ritrova l’intera comunità contro per aver accettato di assumere la difesa di Tom Robinson, giovane dalla pelle nera accusato di stupro da una giovane dalla pelle bianca. Una figura che mi fa venir voglia retroattiva di fare l’avvocato. Per la sua interpretazione della professione e la sua pratica. Leggere per credere.

Il libro è superlativo da numerosi punti di vista e profondamente emozionante, ma è della sinapsi inaspettata che mi ha attivato che vorrei parlare. Partiamo della scampata aggressione ad Attycus da parte di un manipolo di cittadini di Maycomb, a cui i figli si trovano ad assistere.

In particolare, la figlia Scout “sventa” l’aggressione riconoscendo tra gli aggressori il signor Cunningham, il papà di un suo compagno di scuola. Candidamente identificandosi come “la compagna di scuola e colazioni di suo figlio Walter” getta in crisi d’identità l’aggressore. (Sono il papà di Walter, amico di Scout, figlia di Attycus e sono qui l’aggressore, ciecamente arrabbiato con Attycus!).
Quando, il giorno seguente, la bambina stupita chiede al padre come sia possibile che tra gli assalitori ci fosse l’amico di famiglia ed estimatore di Attycus, il signor Cunningham, la risposta di Attycus è un trattato di antropologia e misericordia, che forse è l’unico binomio che ci salverà dal baratro.

Scout “Credevo che il signor Cunningham fosse un nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era”.

Attycus “E lo è ancora!”
S “Però stanotte voleva… farti del male”

A “Il signor C. È un brav’uomo, ma come tutti noi ha le sue debolezze”.
Jem (fratello di S.) “Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione stanotte ti avrebbe persino ucciso”.

A “Avrebbe potuto farmi qualcosa, ma figliuolo quando sarai più grande capirai un po’ meglio la gente. Una folla è fatta di individui, quali che siano. Stanotte C. faceva parte di una folla ma era pur sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo… anche se ciò non li scusa, ti pare?”.

J “Direi di no”

A “E infatti c’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli tornare in sé!” “Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini. Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che W. C. si mettesse nei miei panni per un attimo, e ciò è bastato”.

La risposta di Attycus racchiude la chiave antica dei nostri misteri di grandezza e redenzione, non importa in quale pozzo di bassezza siamo andati a cadere, nelle azioni, nelle opere e nelle omissioni. La chiave è l’empatia e soprattutto ciò che ne consegue. Chiave di volta, in questi tempi di profonda violenza verbale a cui non raramente fa seguito violenza fisica e di cui la sfera social sembra ergersi ad arena senza confini. Arena in cui siamo immersi che promette interconnessioni e, bolla su bolla, finisce talvolta per edificare muri.

Leggendo questo passaggio, il richiamo a ciò che succede in quelle dinamiche che fanno dei social una sorta di violenta cloaca sociale è stato pressoché immediato, insieme al richiamo di un libro precedentemente letto, meno celebre de “il Buio oltre la siepe, ma comunque un piccolo capolavoro (nel suo genere). Se fossi un’insegnante proprio in questi anni ne farei un testo di lettura obbligata.

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé

“Vita breve di un giovane gentiluomo”
Mangez-le si vous voulez

“Il buio oltre la siepe” mi ha chiamato alla mente “Vita breve di un giovane gentiluomo” di J. Teulé, edito in Italia nel 2011 da Neri Pozza, dal titolo originale molto più appropriato (come quasi sempre succede con i titoli originali) “Mangez- le si vous voulez”, ovvero “Mangiatelo se volete”. Crudo quanto la storia reale che racconta.

La giornata del 16 agosto 1870 per Alain de Monnéys è davvero una giornata campale. Esce di casa da stimato cittadino e benvoluto vicesindaco di Bessauc nel Perigord francese, e non vi farà mai ritorno perché letteralmente mangiato dalla folla dei suoi concittadini.
Scrittura superba in una cronaca che sembra sempre sull’orlo di provocare un sorriso, se non fosse che esplode a un certo punto in un vero delirio tragico.
Alla base del rivolgimento del sentimento popolare verso il giovane Alain, una voce diffusasi tra la folla (mi verrebbe da dire in rete, ma ops siamo nel 1870) di una sua defezione a favore dell’esercito prussiano (contro cui si era arruolato) e di atti di conclamata infedeltà all’imperatore. Voci. Non verificate. Che il lettore sa essere false. Ma impotente, come il protagonista, assiste al montare della rabbia cieca (ma è poi rabbia la parola giusta?) della folla e alla sua azione violenta e omicida fino a sfociare in episodi di vero e proprio cannibalismo.

Mangez-le si vous volez” è l’invito provocatorio del semi-attonito sindaco, che viene preso alla lettera dai suoi concittadini in un vortice di inspiegabile violenza e follia omicida. Talmente inspiegabile che durante il processo, che vedrà pochi tra i facinorosi sul banco deli imputati (usiamo facinorosi solo convenzionalmente perché si fa fatica a trovare parole adatte al caso), uno tra loro dirà forse l’unica verità plausibile “Non so cosa mi sia preso”.

Su questo non sapere, e su quello che ci prende quando ci alieniamo da noi stessi – e dagli altri che poi è solo l’altra faccia della medaglia del fenomeno – si giocano le sorti dei singoli che ci passano accanto e del mondo intero, sui social e nelle nostre realissime giornate.

Pensiamoci. E se può aiutare leggiamo e facciamo leggere questi due libri, necessariamente sconvolgenti.

Non riuscirai mai a capire le persone…

PS: “Il buio oltre la siepe” mi è stato regalato da una tra le persone che più stimo, mia amica e al tempo collega. Nella sua dedica il senso.

“…non riuscirai mai a capire le persone se non ti metterai nei loro panni e proverai a vedere le cose dal loro punto di vista…”

con grandissimo affetto

Maria

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“L’acqua del lago non è mai dolce” chiama “Ricordi della mia inesistenza”. Un libro chiama l’altro

Copertina Caminiti Solint

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Volevo scrivere de “L’acqua del lago (che) non è mai dolce” ma poi ho incontrato Rebecca Solnit e i suoi “Ricordi di inesistenza”

Quanti modi abbiamo di diventare noi stesse: tanti e probabilmente nessuno troppo facile.
Quanto conta il posto dove siamo, quello dove scegliamo di andare o di stare nel periodo della muta, che dura anni o decenni o forse tutta la vita.
Di certo c’è un tempo, un modo e un luogo in cui decidiamo, non chi voler essere ma a quale lato di noi dare un’opportunità, quale coltivare, quale far crescere per poi in un tempo futuro andare a raccogliere la restante parte, missione quest’ultima altrettanto avvincente.

C’è un tempo nella nostra vita in cui saremo integre, ma in quello che io chiamo il tempo della muta ci centriamo su una parte di noi stesse che noi eleggiamo a nostro centro, da cui la nostra evoluzione prenderà forza energia propulsiva per il resto della nostra vita (con i nostri inevitabili stop and go).
Una specie di centro karmico se volete, il nostro Io, quella particolare combinazione di neuroni, cellule ed emozioni che darà la direzione alla nostra evoluzione di donne. E ci sono posti in cui consapevoli ci dirigiamo e a volta stanziamo che assistono al travaglio, fino al parto di noi stesse. Perché qui parliamo di donne e di un “moto” a noi stesse. Alla nostra identità situata.

Essere una donna è una discriminante? Si lo è


Lo è stata per le generazioni precedenti alla nostra, e lo è oggi, su intensità e passaggi diversi, forse, o forse neanche troppo diversi. E’ giusto che lo sia, perché siamo diverse, il punto è capire in che modo. Se a modo nostro o no.

Cosa succede in questo tempo, in questo luogo, in questo moto è il centro di due storie che senza volere si sono sovrapposte nelle mie letture recenti ( e nelle mie sinapsi letterarie).

Una rossa Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, di Giulia Caminito (tra i candidati Premio Strega 2021, edito da Bompiani) e un’immensa Rebecca in “Ricordi della mia inesistenza” Rebecca Solnit (edizioni Ponte alle Grazie).

L'acqua del lago non è mai dolceRicordi della mia inesistenza

Gaia, e l’acqua del lago che non è mai dolce

In “L’acqua del lago non è mai dolce”, una bambina, poi adolescente, poi giovane adulta si muove tra Roma e la sua provincia, nello specifico Anguillara Sabazia e i borghi attorno al lago di Bracciano, alla ricerca sofferta e rabbiosa di sé. Interessante per me la vicinanza dei luoghi alla mia residenza attuale e l’impenetrabilità del personaggio, piuttosto monolitico e ostinato, da apparire quasi monodimensionale pur lasciando intuire spiragli di dolore e debolezza profondissima. Incapacità di leggersi e di tradursi, di offrirsi all’esterno, nelle amicizie, negli amori, seppur adolescenziali, nelle passioni, praticamente inesistenti. Un personaggio che mi piacerebbe interpretare teatralmente, per il non detto e per quanto si può di questa rossa intuire dalla sua apparente non relazione con gli elementi del contesto: dalla famiglia, disperata ma ostinata nella sua sopravvivenza a conduzione matriarcale, alle amiche del cuore, alleate strumentali alla sopravvivenza, agli amori costruiti e a quelli – suo malgrado – impossibili da reprimere, grimaldello della sua identità.

Rebecca, e i ricordi di inesistenza di tutte noi che poi abbiamo scelto di esistere

Rebecca Solnit racconta se stessa, negli anni dell’esplorazione di sé e della scoperta e della formazione di questo pensiero coraggioso, dissacrante e profondamente innovativo, che si dispiega e si forma nei ”Ricordi della mia inesistenza”.
Per me qui il sottotitolo è “Storia di una libertà”. Non nasciamo libere, ma lo diventiamo. Per alcuni è più difficile,. Per le donne il percorso verso la libertà personale ha più ostacoli, che si aggiungono a quelli sacrosanti che ciascuna persona, a prescindere dal genere ha.
Attraverso i suoi ricordi Rebecca Solnit ci racconta come è arrivata a fare il lavoro di giornalista, saggista, intellettuale, documentarista che fa e soprattutto come è arrivata a farlo nel modo che è suo, che le appartiene. Come è diventata la donna che è: viaggiatrice, pensatrice, ironica, acutissima, con le relazioni che ha scelto di avere e quelle che non ha voluto sedimentare.
Nel farlo ci racconta la San Francisco degli anni ’70 fino a quella degli anni ’90, vissuta in prima persona tra i centri culturali d’avanguardia e i movimenti per i diritti civili, lontano dal presidio della cultura più intrisa di occidente che nella Est Coast sembrava strizzare l’occhiolino all’Europa.
Nel raccontare il suo lavoro di ricerca sulle comunità artistiche degli anni ‘50 ci racconta pezzi di storia che spesso mancano alla narrativa sulla mitica West Coast, e portandoci nei suoi viaggi nel deserto del Nevada e o al Sud nel Mexico ci racconta una battaglia ambientalista attraverso uno sguardo pionieristico e genuinamente alternativo.

La sua storia è la lettura immersiva ed esperienziale di un contesto in fermento con gli occhi profondamente intelligenti di una donna, che diventa femminista per presa di coscienza.

Alcuni libri si mangiano

Questo è quello che io chiamo un libro da “mangiare”, perché è nutriente e fa bene. Da regalare alle persone in cerca di identità e soprattutto a chi sta rischiando di perderla nel conformismo o nello scoraggiamento di questi nostri giorni.

Non rimpiango (quasi) mai le mie letture, come le mie esperienze. Però non tutti i libri vanno nel mio scaffale dei “libri che amo”, ancor meno in quello dei necessari.

Rebecca Solnit* con i suoi “Ricordi della mia inesistenza” c’è, e ci resterà.

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*Rebecca Solnit , per rendere l’idea, è quella del mansplaining, o meglio – come lei racconta – fu un lettore del suo celeberrimo saggio “Gli uomini mi spiegano cose” a coniare questo neologismo per identificare il fenomeno da lei individuato e descritto, quando ahimé ne eravamo già afflitte senza averne sufficienza coscienza. Il saggio è del 2008, il New York Times ha eletto “mansplaining” parola dell’anno nel 2010 e nel 2014 è il termine è entrato nel dizionario.

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