L’estate in cui ho fatto pace con l’estate. Itinerari tra Gargano, Ponza e Isola d’Elba

 Ho scelto di fare le vacanze in Italia, al mare, sotto il sole splendente e sono una sopravvissuta felice.

Ponza al vento – foto @caffeconrose (agosto 2020)

Mi è tornato il desiderio di mare in estate, dei suoi colori, odori, luce e calore sulle pelle, non solo nelle ore della sera. Del suo vagare in costume e ciabatte e capelli di sale, in ogni angolo di isole e promontori. Del suo richiamo a immergersi in acque corpose e a seguirne per ore le onde, raffreddando i pensieri sotto il sole rovente. 

Chi ha un’anima novembrina come la mia, certificata alla nascita, può capire cosa ciò significhi. Chi frequenta gli archetipi delle divinità femminili, altrettanto: un ritorno a celebrare Afrodite, nella luce accecante dell’estate mediterranea.

E’ stata una bellissima estate.

Qui sotto qualche impressione in più raccolta nel mio girovagare marino di questa estate 2020, estiva come non capitava da anni.
(NB: Non scrivo qui riferimenti a strutture ricettive e similia, ma se avete curiosità scrivetemi pure e vi risponderò).  

Luglio 2020 – Gargano – Puglia 


La mia estate marina è cominciata con una settimana nel Gargano, a luglio. Camping, con possibilità di appartementini (noi abbiamo scelto quest’ultima opzione).  Immersi nel verde, struttura dalle atmosfere gipsy anni ’70, no linea del telefono, wi-fi abbastanza debole da desistere se non strettamente necessario. Spiagge bianche di sassolini, rocce luminosissime, sovrastate da pinete profumate di mediterraneo, cielo azzurro, dorato e screziato di rame e argento la sera. Acqua che trattiene colori e odori di tutto questo. 

Lunghissimi bagni in acque cangianti, escursioni mistiche in canoa nelle grotte della costa, trekking con panorami azzurro- verde-marrone. Ovunque luce. Pasti a base di pesce, pane e pomodoro, pane cotto, formaggi e carni di ogni spessore. Borghi e loro abitanti che celebrano il risveglio estivo (entro le misure del Covid), pur mantenendo integro il loro cuore piuttosto chiuso e a tratti vicino all’inverno, per chi sa ben guardare.

Cose “Coffee N’Roses” – Gargano: Spiagge – Vignanotica, Baia di Campo (altre molto promettenti ma chiuse per Covid: Sanguinara, Pugnochiuso); Trekking – Sentiero dell’amore (partenza da Vignanotica); Paesi: Rodi Garganico e la strada per arrivarci al tramonto su tutto il resto; Cibo: pane e pomodoro e pane cotto in vetta seguiti da polpo in tutte le salse; Accessori: da portare ciabattine per spiagge di sassolini appuntiti, per una volta la TRE che non prende mai, figuriamoci lì.  Nota: il Gargano lo abbiamo esplorato anche d’inverno, precisamente a Capodanno. Se siete anime profondamente invernali merita moltissimo in quella stagione… ma ops,  qui stiamo parlando di estate. 

Agosto 2020 – Isola di Ponza – Lazio 

Le isole in agosto sono state per un po’ “l’ultimo posto nella classifica delle vacanze che vorrei”. Eppure respirare l’aria di un’isola ormai miticamente estiva, impregnata di colori pastello acceso, voci di gente allegra e volti segnati dal sole, ottime cene e fiumiciattoli di vino nelle vene, per tre giorni, mi ha fatto bene. Avevo girato l’isola e le sue baie in barca anni prima e avevo apprezzato, ma quest’anno non abbiamo preso barca, e l’abbiamo vissuta a ritmo lento, a partire dalla sua zona alta Villaggio dei Pescatori. Di Ponza mi ha fatto bene l’atmosfera estiva all’ennesima potenza, ma anche quella luce apparentemente educata del Tirreno che tuttavia si imprime a livelli profondissimi, come se emettesse radiazioni capaci di raggiungere e far risuonare le migliori vibrazioni, non importa dove siano andate a nascondersi.

Cose “Coffee N’Roses” – Ponza: Il Villaggio dei Pescatori e l’hotel dalle casette color pastello in cui dormivamo; la colazione in terrazza con la maga Circe che continua a sognare davanti ai nostri occhi pieni di azzurro (tradotto: si è molto vicini al Promontorio del Circeo); il mare onnipresente, le piscine naturali la sera; Chiaia di Luna al tramonto (anche se non si può scendere in spiaggia); il giri in taxi tra i luccichii del verde isolano prima del tramonto; gli spaghetti ai gamberi rossi e il vino, tutte le sere; la frittura di calamari e la birra  ghiacciata tra gli odori salmastri; le targhe sui palazzi colorati che raccontano la storia dell’isola oltre le settimane di agosto; le barche piccole dei pescatori, ciascuna con il suo nome, al porto, di notte prima di salpare. 

Agosto 2020 – Isola d’Elba – Toscana 


L’isola d’Elba mi chiamava a sé dalle elementari, quando fantasticavo dell’esilio napoleonico e già la mia natura introversa un po’ ne invidiava le sorti. Quest’anno ci sono andata in estate e ne ho respirato le meraviglie. L’Isola d’Elba mi è piaciuta molto; per esser stata su un’isola ad agosto, mi ha sorpreso quanto io sia stata bene circondata dalle sue acque, coccolata dai suoi colori, mai gridati, ma soffici, eleganti, intensi, profondi al punto giusto. Originali. Questo è il tratto dell’Elba che mi porto dietro: il suo essere un’isola con un modo  tutto suo di esserlo. Facendo l’occhiolino all’antropologia isolana e toscana allo stesso tempo, con quel pizzico di rudezza e imprevedibilità d’animo che hanno sempre e dovunque i marinai ma con quella inalienabile consapevolezza della propria bellezza che rende i toscani tali.  Nuotare, nuotare, nuotare e aspettare il tramonto in semi solitudine sulle scogliere accanto alle più famose spiagge stracolme, qualcosa da provare. Viaggio on the road con la mia amica di viaggi on the road, camping in tenda a Cavo, la meno gettonata dell’isola, perciò a me molto cara. Camping  spartano ma con piazzole super, a mo’ di giardinetto privato, immerso nel verde, lontano dalla confusione inevitabile. Dei colori del mare e del nuotarci dentro, non posso dirvi molto se non che la mia esperienza è stata di nuotare, osservare, respirare l’argento. Per me l’Isola d’Elba è l’isola d’argento e chi ama i toni freddi sa come questo possa risuonare internamente. Anche il rumore dell sue onde, mai fragoroso, mi richiama ancora nel ricordo a un ridere argentino. 

Assolutamente da girare in macchina, da godere del suo vino bianco,  freddo e delle cene di pesce fino a non poterne più, se mai “non poterne più” fosse una condizione realizzabile, nelle serate che sono solo la continuazione delle giornate di sole, che sono la continuazione delle nottate di stelle.

Cose “Coffee N’Roses” – Isola d’Elba: Ie belle case mai volgari, riecheggianti di passato e a lui fedeli nelle architetture e nelle posture; i tramonti dovunque, qualsiasi sia la luce, il più bello, di un arancio freddo, riscaldato di rame sulle scogliere di Cottoncello; la vista da Monte Capanne per affogare d’azzurro (se volete arrivarci in cabinovia calcolate la fila, lunga e calda ad agosto, poi 20 minuti per salire e altrettanti per scendere, mentre a piedi il percorso di trekking – dicunt – è di scarse 3 ore); il rosa di Portoferraio, le scogliere bianco ghiaccio accanto alla gettonatissima Fetovaia, gli gnocchi alle uova di pesce in veranda sulla spiaggia  delle Forcelle, il chioschetto d’antan nella spiaggia di Topinetti, il gelato sul lungomare a Cavo, la gita in bici da Cavo a Rio Marino (bici fornite dal campeggio), le stradine e i panni stesi ad asciugare, profumatissimi di Rio Marino.
Cose per la prossima volta – Per acclamazione popolare, aggiungo qui l’isola di Pianosa e le sue acque, dicono quintessenza della bellezza delle acque marine, a cui però non è facile arrivare in agosto, perché l’agenzia che organizza la gita in barca, unica nell’isola (almeno da quanto siamo riuscite a sapere) da copione ha le prenotazioni già piene da tempo. Mio personale rammarico non aver familiarizzato sufficientemente con l’anima mineraria che connota l’isola, pur avendola fortemente intuita attraverso le rocce e i richiami costanti alle miniere e alla vita dei minatori.

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Amo talmente l’autunno da non poterne parlare, come per un amante di cui non si possono metter in piazza dettagli di assoluta intimità.
Ho bisogno, ogni anno, di scendere nell’inverno, nel suo silenzio, nel suo caldo artificiale che mi da il senso del freddo con cui tutti conviviamo a certe latitudini dell’esistenza.
La primavera… scusate sono umana, non posso non essere travolta dal suo risveglio delicato e inesorabile, in ogni angolo del globo (a emisferi alternati) .

Con l’estate ho un problema.  L’estate mi da gioia e luce a dismisura, talmente fuori misura  che negli anni ha creato qualche imbarazzo.
Il caldo mi stordisce, nel  senso vero del termine, e non necessariamente positivo. 

Nelle sere di amarcord con le mie amiche di gioventù, si narra ancora di mitologiche insolazioni nel bel mezzo di vacanze studio a Malta, al largo del mare delle Canarie nel corso di coraggiose esplorazioni in canoa a mezzogiorno d’agosto, come di boccheggianti escursioni nei deserti dell’Africa del Nord e di corpi color aragosta su indimenticate corriere blu anni ’90, di ritorno da sfrontate giornate di mare, spiaggia libera, senza ombrellone. 

Con l’età che amiamo chiamare della maturità – decidete voi quando inizia, perché personalmente ho perso memoria dell’ingresso – ho iniziato a scegliere sempre più vacanze autunnali, anche nel cuore dell’estate, paesi freddi o emisfero opposto, per poi incontrare le mie amiche al ritorno e raccontarci le nostre estati spesso diametralmente opposte davanti a una pizza romana settembrina, maglietta di filo – maniche lunghe.

Insomma, ho un problema con l’estate: mi manda in estasi a guardarla,  ma esistenzialmente ho sempre avuto l’impressione di non averne pieno accesso, se non dopo le ore 18.  Come tutto nella vita, non è un problema solo fisico, anche se  è il fisico mandare i primi segnali di allarme: “soggetto poco resistente all’estate”

Buon autunno, a chi legge ora , sul finire dell’estate. 

Lizzie di Shirley Jackson

Quando perdo lucidità o interesse nell’osservazione delle persone reali, per non essere contagiata dal mio stesso pessimismo antropologico (latente ma vigile), mi giro a guardare le persone che incontro nei libri, facendo finta che non siano ancora più reali di quelle che incontro fuori.  Così in questi giorni  mi capita di concentrarmi su una mia “lunga” conoscenza: Lizzie di Shirley Jackson, incontrata mesi or sono nell’omonimo romanzo.

Dico lunga perché questo libro l’ho molto desiderato, ho girato diverse librerie prima di trovarlo disponibile, ho iniziato a leggerlo con grande entusiasmo e curiosità verso questa ragazza apparentemente svampita e regolare, ma a un certo punto Lizzie ha iniziato a infastidirmi. E quindi non sono riuscita a leggere la sua storia, se non a piccole dosi. Risultato: l’ho finito solo qualche giorno fa. 

Pensando a Shirley Jackson, alla sua scrittura e poi guardandola negli occhi (in foto), ho avuto da subito l’impressione di essere davanti a un’anima gotica e immaginifica, con una punta di ironia da non sottovalutare mai. 

Avevo letto “Abbiamo sempre vissuto nel castello”  e mi aveva letteralmente deliziata, avevo degustato  ogni giorno, come in un rituale tè corretto all’alcool puro, quella dissonante armonia familiare quotidianamente celebrata in un ambiente che prometteva radiosità e restituiva mistero. 

Lizzie, no. Non sono riuscita a frequentarla se non a piccole dosi. La sua personalità caleidoscopica e violentemente screziata, divisa nelle sue quattro ragazze –  Elizabeth, Beth, Betsy, Bess – mi ha restituito la percezione interiormente distopica di una personalità, disintegrata ma potentissima.

Questo è quello che mi è piaciuto di Lizzie, nel suo essere disturbante: la potenza. Il suo imporsi, in una vera e propria tragedia personale dell’identità, senza scendere a compromessi e mediazioni con se stessa, senza possibilità di ricomporsi,  senza volontà in fondo di ricomporsi,  nella purezza di ogni singola persona che abita il suo essere.

Così mi ha colpita nell’anima questa Lizzie molteplice, incapace di generare alcuna forma di equilibrio, per quanto posticcio, in se stessa che le permettesse di continuare a vivere in società, pur a suo modo provandoci.

Per questo, il finale mi ha fatto piangere. 

L’annullamento di una identità disturbante, nei suoi chiaroscuri violenti,  in una ricomposizione pacifica, armoniosa e  quasi amabile, talmente vuota da poter essere riempita dalle proiezioni dei suo assassini benefattori, il dottor Wright e la zia Morgen.

Così si celebra la vittoria di un terapia appassionata e movimentata, mossa dall’umana buona fede e sostanziale benevolenza di medici e familiari,

Alla fine Lizzie non c’è più, ma io penso che altrove tornerà. 

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Piccola nota ( e un film in arrivo)

“Lizzie” è un  romanzo di Shirley Jackson del 1954, edito in Italia da Adelphi.
Da “Lizzie” è stato tratto il film “La donna delle tenebre”, di Hugo Haas con l’interpretazione di Eleonor Parker. Io non l’ho visto, ma conto di recuperare.

Shirley Jackson nasce a San Francisco nel 1916, sotto il segno del Sagittario. Vive e scrive per vent’anni in un villaggio del Vermont, North Bennington con il marito e i tre figli. Qui muore nel 1965.
A Shirley Jackson è ispirato il film Shirley che, diretto da Josephine Decker con Elizabeth Moss, ha debuttato quest’anno al Sundance Film Festival, e pare che uscirà (speriamo on line) il 5 giugno.
PS se siete curiosi di vedere il volto di Shirley Jackson (l’originale), qui un assaggio di immagini da Google.

Pensieri apocalittici e disintegrati da questo isolamento

In questi giorni come in un rigurgito universitario mi tornano in mente  la Scuola di Francoforte, la società del consumo e l’individuo eterodiretto.  Dal mio divano, sul quale staziono fino a data da destinarsi (quando non sono alla scrivania).

My quarantine

Strane associazioni in un periodo in cui la sfera del moriniano loisir è decisamente compressa.

Eppure questo magone insieme a una sensazione di profonda lucidità mi si è installato dentro, da qualche parte tra il cervello, il cuore e lo spirito fin da subito.
Per settimane non ho trovato le parole per descrivere questa quarantena. Tuttavia da subito mi ha colpita un’impressione forte di qualcosa che non riuscivo a ben rappresentare. E probabilmente non ci riuscirò neanche ora, perché la avverto intimamente connessa a uno stato di silenzio necessario.
Probabilmente è stato proprio il silenzio, il grande assente, a colpirmi.

Il vuoto a fronte di questo pieno forzoso, che ci assale da ogni dove, da ogni dispositivo lasciato acceso. Come una spia a intermittenza continua dentro di noi che, angosciosa, ci chiede se mai potremmo veramente, seriamente spegnere il nostro smartphone, senza fare finta, senza continuare a essere scansionati finanche nel sonno.

Il mio bisogno primario al momento sembra essere il silenzio, e mi trovo a pensare a quanto buffa sia questa situazione, in cui proprio in tempo di isolamento il silenzio è merce tanto rara.

“Così poco abili anche noi a non dubitare mai di una libertà indecente”*

Siamo diventati consumatori talmente abili da incanalare la nostra intera vita nei parametri del consumo. I social media, per quanto io non sia un’apocalittica, ci danno in questo una grossa mano. E proprio in questo periodo lo vedo con grande chiarezza, come dato di esperienza sociale, ben oltre ogni teoria dei media.

Siamo diventati consumatori talmente abili da vivere consumando la nostra stessa immagine attraverso gli occhi degli altri. I social hanno tanti, indubbi meriti, ma questo grande e grave demerito. Aver perfezionato il modello del consumo dei media di massa.
Mi ritorna così alla memoria la mia amata Scuola di Francoforte – non per ferree argomentazioni e teoria sistemica, la configurazione delle mia memoria lo impedisce – con il suo consumatore perfetto, espressione dell’antropologia moderna.

Ho come l’impressione che abbiamo necessità di consumare anche noi stessi per essere. Siamo soggetti fortemente oggettivizzati, per nostra stessa condotta. Il consumo è sostanzialmente il conduttore di molecole di ossigeno nella nostra bolla. Le molecole del senso si aggregano attraverso dinamiche di consumo. I consumi nella nostra bolla, di contenuto, di immagini, di proiezioni, di mi piace, non mi piace e vedi anche, ci legittimano a “restare nella bolla” e ci dicono sostanzialmente chi siamo attraverso l’elaborazione algoritmica e il feedback spesso frettoloso – ma più rilevante di quello che ammetteremmo a noi stessi – di altri.

Non più aspiranti consumatori di massa, consumiamo la nostra stessa bolla, di essa ci nutriamo con i mi piace che diamo e quelli che riceviamo, in un meccanismo di costruzione di identità quanto mai eterodiretto, che in maniera predittiva suggerisce e conferma il consumatore che siamo. Il tutto mentre siamo comodamente seduti (?) sdraiati (?) al bivacco spinto (?) sul divano di casa, fino a data da destinarsi.

“Voglio trovare un senso a questa condizione, anche se questa condizione un senso non ce l’ha”**

Perché tutto questo mi salga fortemente alla mente in questi giorni, resta in parte da decifrare, ma come  sempre è più per un’intuizione che per un ragionamento ben organizzato.

C’è un tale rumore in questi giorni, il lavoro che ha preso accelerate inimmaginabili, le dirette, i corsi gratuiti, le offerte di qualsiasi cosa e forma per scongiurare la nostra fuoriuscita dalla bolla e la noia. 

La nostra santa, sacrosanta noia di uomini liberi pur se soggetti a misure di isolamento forzato. 

Sappiamo vivere senza consumare? O meglio sappiamo dire chi siamo senza consumare o offrici in pasto al consumo di altri?

Sappiamo “stare”, senza perderci, quando non possiamo affidare alle dinamiche del consumo il veicolo della nostra identità? In queste settimane l’eco di queste domande è molto profonda, e forse un po’ subdola.
La mia personale risposta è “non ne sono molto sicura”.

Siamo intrisi del principio della prestazione, anche in questo tempo.  “Come stai vivendo questa quarantena?” “Cosa stai facendo per non sprecare questo tempo che cause di forza maggiore sembrano spingerti a perdere?”

Tornando a Morin e alla sua etica del loisir – semplificando, per l’uomo moderno non è il lavoro, in quanto produzione a definire l’identità ma il consumo di momenti ludici e ricreativi (loisir) – mi sembra che si stia consumando un cortocircuito tragico. E che la condizione che alcuni gruppi sociali vivono in queste settimane di lockdown faccia da cassa di risonanza perfetta, pur se con una certa discrezione (io stessa mi percepisco qui).

Siamo diventati i consumatori perfetti, perché la sfera della produzione e del consumo tendono a coincidere.

Il nostro tempo del loisir è sempre più sovrapposto a quello del lavoro, almeno per i lavori più fortemente collegati alla sfera della conoscenza. E’ un nuovo “spirito del tempo”, in cui ancora una volta i media da determinati sono diventati determinanti, influenzando il nostro modo di essere, laddove un mutamento tecnologico spinge verso una trasformazione culturale e sociale, azzarderei antropologica. 

Così i “divi hollywoodiani” che consumavamo negli anni dei mass media, rischiano di diventare i nostri ego, in questa vanagloria social che senza soluzione di continuità ci traghetta  nel nostro tempo e spazio virtuale, dal lavoro al tempo libero e rimbalzo.

“Da ciceronessa che spiega com’è bella com’è bella sé stessa”***

Sarà questa situazione estrema che mi spinge verso orizzonti estremi, sarà che ieri ho visto “The Great Hack” (il necessario documentario sull’affare Facebook e  Cambridge Analitica). Ma nella dinamica del consumo uomo – oggetto, mi sembra di vedere un rischio dilagante per cui il secondo termine della relazione possa diventare il – se stesso di ciascuno di noi, e in qualche modo cannibalizzarci. 

I dati che tu produci (in questa infoperformance collettiva e senza tregua, ndr) come un boomerang, possono determinare la persona che diventerai, a prescindere dalla tua volontà, concludeva David Carroll, in The Great Hack.

Perché tutto questo mi venga in mente nel 40qualcosesimo giorno di quarantena, in regime di virtualizzazione spinta delle relazioni, esattamente non so. Ma un’intuizione, disordinata come da mia natura, mi guida. 

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*”Cercami”, Renato Zero
**”Un senso”, Vasco Rossi
***”Mi riposa”, Lucio Battisti

Alcune letture di ispirazione in ordine sparso (edit 30 aprile)

Psicologia dei nuovi media di Giuseppe Riva (ed. Il Mulino)
La libertà ritrovata di Franck Schirrmacher (ed. Codice)
Lo spirito del tempo di Edgar Morin (in italiano ed. Meltemi)
L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse (ed. Einaudi)
WE, The City. Intelligenze civiche nella smart city (mio piccolo studio in cui ho condensato un po’ di spunti, qui: www.slideshare.net/ChiaraBuongiovanni/we-the-city-intelligenze-civiche-nella-smart-city)

In lettura
Accelerazione e alienazione di Hartmut Rosa (ed. Einaudi)
L’abisso dei social media. Nuove reti oltre l’economia dei like di Geert Lovink (ed Università Bocconi)

Suggeriti da voi
Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni di Cal Newport (ed. ROI) – Grazie Diara Diallo (via Facebook)
Avere o essere di Erich Fromm (ed. Mondadori) – Grazie Sergio Monetta (commento in diretta)
(…) vostri suggerimenti di lettura per assonanza di temi o per associazioni di idee, sono benvenuti!

Le pastore. Donne libere e inaspettate “In questo mondo”, il docu-film di Anna Kauber

E’ stato con grande piacere e sorpresa che – insieme a cibi, musica e nuove relazioni – durante la Festa Nazionale dei Borghi Autentici d’Italia a Barrea (Abruzzo), ho gustato la proiezione del docufilm “In questo mondo” di Anna Kauber, dedicato alle pastore italiane.

Un racconto corale e senza trama apparente, che scorre in un cammino lento e sorprendente attraverso le terre alte italiane e la loro bellezza aspra e profonda, oltre ogni stereotipo di genere e vari altri.

“In questo mondo”, titoli di coda

Al centro le pastore, narratrici e uniche attrici di una realtà ai più insospettabile: in Italia esistono decine e decine di donne pastore, presenti in tutte le regioni (oltre cento quelle censite e ascoltate da Anna Kauber nel suo lavoro di ricerca e racconto) .

Venti le pastore che nel docufilm danno voce e volto a una verità per me ancora più sconcertante: essere pastora è oggi in Italia una scelta ed è una scelta di profondissima libertà.

Di stereotipi le pastore ne confutano molti, rendendo evidenza di una profonda intelligenza femminile che prescinde dalla “capacità” (fisica e non solo) che la gestione di greggi e mandrie richiede, per di più in alta quota e in alcuni casi addirittura in mobilità continua, senza una “stalla fissa”.
Per come la vedo io sarebbe bello se ognuno trovasse in questo film il suo stereotipo da farsi confutare.
Dai modelli patriarcali in ambienti rurali alla determinazione femminile in culture ostative del cambiamento in continuità eterna con la tradizione, dalla questione delle terre alte e del loro spopolamento di senso, persone e attività a un modello di pastorizia al femminile connotato in maniera del tutto specifica, da una espressione fortissima di “sorellanza” e di empatia con gli animali a un nuovo ambientalismo fino a un femminismo “radicale” nel vero senso del termine che diventa perciò profondamente rivoluzionario. Un senso positivo della vita e una profonda accettazione della morte. Scegliete voi cosa le donne pastore possono insegnare.

A me hanno lasciato due impressioni molto forti:

  • la capacità profonda di amare e apprezzare la natura rende le persone creatrici di poesia e trasmettitrici di bellezza, anche in contesti e attraverso immagini non facili;
  • la libertà intellettuale prescinde dal livello di istruzione e da qui una catena di pensieri sull’emancipazione femminile e sugli stereotipi in cui l’abbiamo imbrigliata, pur in buona fede.
    Non escludo affatto che su questo dovremmo fare due, tre o anche quattro passi indietro, come magistralmente ha fatto la regista, durante le riprese.

In ultimo, ma non da ultimo, sorprendente e rincuorante che le Pastore esistano “in questo mondo” e siano per un verso o per un altro donne come noi. (vedere il film per credere)

Ps: non è piaciuto solo a me!

Anna Kauber alla proiezione del suo docu-film “In questo mondo”, a Barrea

Commenti entusiastici e vibranti quelli raccolti nella saletta di Barrea, a conferma di un curriculum già di rilievo. 
“In Questo Mondo” è stato il Vincitore Miglior documentario Italiana.doc al Torino Film Festival 2018, perché riconosciuto come un “film immersivo che rende le immagini corporee e ci contagia con i segni di un rapporto vivo e appassionato al mondo”. Interessante sapere, come Anna Kauber con giusto orgoglio rivendica, che “In questo mondo” è nato da un lavoro sul campo durato due anni, che ha di fatto aperto un filone di ricerca multidisciplinare sulla pastorizia femminile in rapido sviluppo. Assolutamente da tenere d’occhio.

Le pastore, una a una

Le cito perché i loro nomi ( e i loro volti) sono la storia:
Maria Pia Vercella Marchese, Michela Battasi, Donatella Germano, Rosetta Germano. Gabriella Michelozzi, Caterina De Boni Fiabane, Assunta Valente, Anna Arcari, Maria Oliveto, Efisia Podda, Lucia Colombino, Marica Colombino, Elia Nicolai, Alessandra Tomei, Addolorata Di Fiore, Rosa Aquilanti, Brigida Ciorciaro, Rosina Paoli, Anne Line Redtroen, Aste Redtroen, Assunta Calvino, Michela Agus.

Se lo avete visto o se lo vedrete, fatemi sapere che ne pensate!

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La proiezione del docu-film “In questo mondo” a Barrea, durante la Festa Nazionale dell’Associazione Borghi Autentici, lo scorso 31 agosto non è casuale. Per capire cosa intendo, qui sotto la presentazione dell’Associazione, come da loro sito.

Borghi Autentici d’Italia è una rete fra territori dove protagoniste sono le persone e le comunità, realtà che decidono di non arrendersi di fronte al declino e ai problemi ma che scelgono di mettere in gioco le proprie risorse per creare nuove opportunità di crescita: realtà che appartengono a quell’Italia che ce la vuole fare.

ps: foto prese in prestito da Sergimon, perché il mio smartphone – macchinetta fotografica – tante altre cose è morto senza appello qualche giorno fa.

Resilienza digitale: quando non abbiamo più dati da perdere

Pur sempre affascinata dalla scienza, complice la mia fantasia indisciplinata e il più delle volte controproducente, sono stata spesso accusata di aggiungere qualcosa di troppo e non propriamente verificato nelle rappresentazioni dei fenomeni.

Così, oggi che non ho più il mio amato-odiato Huawei P9, rovinosamente caduto e deceduto all’istante su un apparentemente innocuo prato romano, nella cornice seicentesca di Villa Doria Pamphili, mi sembra di avere più chiara davanti a me la struttura della mia memoria, da oggi amputata di circa due (forse tre) anni di vita immaterialmente tradotti in numeri, contatti, foto, video, chat, messaggi, note.

Nata sul finire dei ’70, ho sviluppato una certa familiarità con la memoria dichiarativa, la memoria procedurale, la memoria emotiva (…) ma qui mi trovo a fare i conti con un altro pezzetto della mia memoria: la memoria digitale (e con le domande di profonda fenomenologia applicata che ne derivano) . Cosa succede quando perdiamo la memoria digitale? La nostra memoria digitale, tutta esterna a noi e ai supporti su cui possiamo ancora esercitare un controllo?

Succede che viviamo un piccolo terremoto. Un piccolo, infinitesimale ma personalissimo “ground zero”. Punto di non ritorno o di ripartenza.

E la cosa che più mi sorprende è cosa possiamo quando la nostra memoria digitale viene così gravemente compromessa. Risposta: NIENTE.

Solo ricominciare. E stupirsi di quanto possiamo essere digitalmente resilienti, nel constatare che si tratta pur sempre di un nuovo, faticoso e un po’ doloroso inizio.

PS: la foto l’ho scattata in un bar, davanti al mio primo caffè in Nuova Zelanda, ad Auckland (lontano 2017). Riporta bene questa sensazione di fortissima libertà che la città mi ha regalato. L’ho scelta per associazioni varie e veloci di pensiero, perché ho l’impressione che, come (quasi) sempre succede con le cose da lasciare andare, la questione sia la nostra libertà dal digitale più che la nostra memoria digitale.

Forse dovrei cambiare il titolo.

Piccolo museo del diario “Senti la Storia che sussurra tra le storie?” Pieve Santo Stefano (AR)

“C’era, ormai, come un rumore speciale, un fruscio di germogli che saliva dall’Archivio,  che dopo tanti anni si riempiva di storie di italiani; un rumore che era fatto di questo insieme di voci di tanti “senzastoria” che raccontavano la storia di un popolo .  E noi avevamo il privilegio di ascoltare questo rumore speciale”. (Saverio Tutino,  fondatore Archivio Diaristico Nazionale)

[Da qualche parte bisognerà pur cominciare, e io comincio da qui]

La prima cosa che mi colpisce è che il Piccolo museo del diario è ospitato da un Palazzo “resistente”:  Il Palazzo Pretorio,  sopravvissuto alla distruzione di Pieve Santo Stefano perché “graziato” dalla mina sottostante che non esplose.

Una strana, dolce ironia della Storia vuole che questa perla della memoria collettiva italiana sia nata proprio qui.
Pieve Santo Stefano, cittadina di poco di più di tremila abitanti in provincia di Arezzo, fu  infatti completamente minata e rasa la suolo dalle truppe tedesche nel 1944, dopo essere stata  evacuata.

Del borgo originario non restano che pochissimi elementi architettonici, tra cui il Palazzo Pretorio, che ospita contemporaneamente il Municipio e, dal 2013,  il Piccolo museo del diario. Nella piazza adiacente, si trova  l’Archivio Diaristico Nazionale che,  per una grandiosa intuizione del giornalista Saverio Tutino e grazie al lavoro instancabile di volontari e appassionati, dal 1984 raccoglie diari, lettere e memorie delle persone italiane. E, insieme alle loro storie, custodisce la nostra storia, le sue luci, le sue ombre, la sua umanità profonda e complessissima.  Ad oggi  circa 8000 i documenti conservati in Archivio.

Ho visitato il Piccolo museo del diario nel giorno del mio compleanno, perché il diario per me è la vita celebrata  in parole e ne ho uno  (o meglio decine) da quando sono nata alla scrittura.
Non voglio descrivervi il museo, perché è un posto dove dovete andare. Voglio piuttosto suggerirvi di andare a Pieve Santo Stefano e visitare il Piccolo museo del diario, per vari motivi.

Andate se amate le parole, se amate le storie, se amate la vita, fuori da ogni retorica e semplice entusiasmo, andate se non la capite e se sospettate che mai esisterà un codice di condotta per viverla “in normalità”. Se vi sentite poveri in immaginazione, se avete vissuto n vite immaginarie in parallelo a quella che noi tutti vediamo quando vi affianchiamo per ore, giorni, anni, andate se credete che la realtà superi  sempre l’immaginazione, ma ancora (vi assicuro) non potete sospettare di quanto. 

Se seduti sull’autobus vi trovate a chiedervi cosa scorra nella vita della persone sedute accanto a voi, dal viso stanco o dallo sguardo radioso,  se con la genuina passione dei  lettori o dei cinefili pensate che le più grandi storie che avete conosciuto siano quelle raccontate nei capolavori del cinema e della letteratura ma non temete di essere smentiti. 

Se credete che l’unica vera materia prima degli scrittori sia la vita, dovreste venire ad ascoltare queste pagine parlanti, di ogni età, colore,  orizzonte valoriale, dottrina politica, fedina penale, Di donne che hanno avuto il coraggio di esigere rispetto per i propri diritti nell’Ottocento come oggi, di donne che nella casa acanto alla nostra lottano contro la violenza, contro la nevrosi, contro la monotonia. Di uomini che hanno commesso i più efferati crimini, di ragazzi che li hanno subiti e hanno dato la vita per la libertà di altri, di adolescenti che scoprono la magia della musica e il fuoco dell’arte, di giovani che sperano nel futuro e raccontano il presente, di padri di famiglia,  in carcere, che hanno rubato, ammazzato e tornerebbero a farlo.  Di persone analfabete che raccontano la più grande epopea, di donne e uomini dalla creatività straordinaria che raccontano, raccontano per amore della vita, per dovere di memoria, per non morire del tutto.

Camminando in questo piccolo, ma densissimo museo conoscerete Clelia e Anteo, Luisa, Vincenzo  e molte altre storie.

Clelia Marchi,  autrice del Lenzuolo ” Gnanca na busìa  –  Il tuo nome sulla neve”

Aprirete dei cassetti che vorreste forse non aver aperto perché quello che troverete ve lo porterete dentro per molto tempo e forse per sempre. Forse, andrete lì perché amanti della scrittura e avidi delle infinite storie che sa raccontare e incontrerete la Storia, con il suo inesorabile giudizio sospeso sulla vita degli uomini e delle donne che la attraversano.

La grande magia di questo piccolo posto è tutta qui.  Ti consegna la Storia sotto sembianze che non ti aspetti, così che ti travolge attraverso le sue migliaia di storie mai banali, travagliate, sofferenti e profondamente inaspettate. Richiama la tua piccola vita alla Storia e ti fa sentire un po’ più vicino agli altri, nel tempo e nella società che attraversi senza averlo scelto.  

Vincenzo Rabito, autore del diario di vita “Terramatta”

All’attività dell’Archivio è collegato il Premio Pieve per la Diaristica. Ogni anno, a seguito del giudizio di una Giuria popolare e  di una Giura “tecnica” , il premio  viene assegnato  a un’opera che sarà poi pubblicata

Probabilmente vi verrà voglia di leggerli tutte
Io alla fine ho riportato a casa Terramatta –  diario di una vita scritto da Vincenzo Rabito, cantoniere semianalfabeta, nato a Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa nel 1899 (edizioni Einaudi). 

Per ora lo sta leggendo mio padre, ma nelle vacanze di Natale sarà sul mio comodino.

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Post Scriptum:  Ho omesso di raccontare i particolari dell’esposizione e di mostrare foto perché il mio consiglio è di non leggere troppe descrizioni prima della visita. (Considerate che c’è una guida strepitosa in loco, che si chiama Luigi).

Può essere tuttavia utile qualche indicazione sul “come fare per”.

Pieve Santo Stefano dista da Roma poco meno di tre ore di macchina.
Il Piccolo museo del diario si trova nel Palazzo del Municipio, nella piazza principale del paese, che è ad oggi molto piccolo. Il museo raccoglie una minima selezione di materiali provenienti dall’Archivio, resi fruibili in format del tutto particolari.  Accessibile da piazza Plinio Pellegrini 1, il museo è aperto al pubblico dal lunedì al venerdì (giorni feriali), dalle 9:30 alle 12:30 e dalle 15:00 alle 18:00. Sabato, domenica e festivi è aperto di pomeriggio dalle 15:00 alle 18:00. In alcune date dell’anno il Museo è chiuso. Per accertarvi di questo e per ogni altra info il sito: Piccolo museo del diario].

Il Piccolo museo del diario è davvero molto piccolo, ma molto denso e vi consiglio di non rifiutare l’offerta della visita guidata, di una ricchezza estrema. Calcolate non meno di due ore per una visita mediamente approfondita, che può durare anche di più se volete curiosare e godere di tutti i materiali disponibili.

L’Archivio Diaristico Nazionale, aperto per consultazioni e ricerche, si trova nella Piazza immediatamente adiacente. Tutti i documenti che arrivano ogni anno da tutta Italia, vengono esaminati, catalogati per anno di arrivo e conservati in questi armadi. [Tutte le info sul sito: Fondazione Archivio Diaristico Nazionale]

Le persone che curano il Piccolo museo del diario sono squisite, estremamente appassionate, preparate e disponibili, Per questo, vi consiglio di rivolgervi a loro se avete intenzione di fare ricerche o avere informazioni più dettagliate.

Se pensate di dormire nei paraggi, considerate che Pieve Santo Stefano si trova immerso nella Valtiberina, a due passi da Sansepolcro.

Il caffé, secondo me

caffè
@clarainbeta

“Incantevole distacco dal dover fare che questo aroma dischiude fumante”.
Il caffè, secondo me.

Caffè rigorosamente espresso, possibilmente da moka (con fischio) in alternativa al bar, in ufficio da cialda, in casi e luoghi estremi da distributore.
Una sospensione, dovunque io mi trovi. Nel bello, un approfondimento della bellezza, nel brutto, un parentesi da non negarsi. Mai. Nel lavoro, una ri-connessione con “altro”, ossigeno per il pensiero.
Irrrinunciabile.