Mia nonna, nei suoi ultimi giorni, a letto, alternava momenti di lamento profondo per i dolori, a sonno comatoso, a racconti di ricordi ispiratissimi.
I ricordi che mia nonna raccontava riguardavano una vita di 96 anni e qualche mese, iniziata negli anni ’20 del secolo scorso, in un piccolo paese della provincia di Frosinone, il mio, in una famiglia composta da un padre medico “condotto” (come sempre sentivo dire da lei), una mamma dal carattere di una “battagliera” (la mia longeva bisnonna di oltre 20 anni più giovane del marito) e già due sorelle e un fratello ad aspettarla, mentre un altro fratello sarebbe arrivato due anni dopo di lei.
Tutti i fratelli sono sempre stati un elemento centrale nei racconti di mia nonna, rimasta orfana di padre all’età di 4 anni. “Fratone” il suo fratello maggiore, medico poi emigrato negli Stati Uniti e il suo fratello più piccolo, amatissimo, morto prematuramente. Ma ho sempre pensato che i super -poteri di mia nonna fossero le sue sorelle maggiori, “le sorelle” come le chiamava, diversissime da lei, e in particolare una delle due, “la sorella” (mia nonna anche lei), con cui ha vissuto insieme tutta la vita, avendo sposato a loro volta due fratelli (motivo per cui io ho avuto quattro nonni materni di fatto e, al netto della difficoltà a spiegare l’albero genealogico, ho sempre considerato questo un gran bel regalo che la vita mi ha fatto).
Più o meno adolescente, mia nonna, sola tra le sorelle, è stata mandata a studiare a Perugia, in un collegio statale per orfani di medici, sezione femminile. Del suo tempo a Perugia, mia nonna mi raccontava con estrema precisione di particolari, i nomi e l’aspetto delle sue amichette, le dinamiche in classe, le materie e gli argomenti che le davano ansia e i modi che trovavano per superarle, i loro giochi con niente, l’acqua ghiacciata che usavano per lavarsi la mattina, l’inventiva per far bastare beni di prima necessità che scarseggiavano anche nel collegio. Mi raccontava, senza mai dirlo (mia nonna non parlava direi mai di sentimenti né di emozioni) la solitudine di una bambina, in un posto freddo, severo e lontano dalle sua famiglia ma soprattutto dalle sue sorelle. Mi raccontava che a Natale e a Pasqua le ragazzine che abitavano più lontano, non tornavano a casa.
Quando stava per morire, un giorno in particolare mia nonna ha fatto una selezione di ricordi, mi ha raccontato solo le cose belle della sua vita, e quasi tutte erano legate all’infanzia . E avevo l’impressione che non le stava raccontando a me, le stava “vedendo” e toccando, incontrando di nuovo. Lo posso dire dalla luce dei suoi occhi e dalle lacrime di gratitudine che ho visto scendere sulle sue guance, rimaste sempre tondette come quelle di una bambina.
In particolare, quando mi raccontava del Natale, nel collegio di Perugia con le poche altre bambine che come lei non tornavano a casa. All’improvviso ha spalancato gli occhi e ha esclamato, con quella sua giustapposizione, tipica di italiano e dialetto: “I sosemeglie! Quando arrivavano i sosemeglie!“, come se fosse il giorno più bello della sua vita. “Le sorelle mi mandavano il pacco co’ gli sosemeglie. La direttrice mi chiamava “Valente”, e io lo andavo a prendere. Era il pacco co’ gli sosemeglie di Natale! Le sorelle lo legavano con un fiocco, di spago. Io lo prendevo, lo portavo in camera, lo aprivo e davo subito uno a Maria (la sua amica del cuore, ndr), uno me lo mangiavo e poi li conservavo“. Mentre parlava, muoveva le mani per toccare il pacco, per sciogliere il fiocco, e per conservare il primo sosemeglio sul cuore.
Io un amore così invisibile e così profondo, nel tempo e nello spazio dei mondi, non so se l’ho mai rivisto. Ma questo, di certo, è l’augurio che vorrei fare per Natale.
Questa gratitudine e questa forza di navigare i secoli, che viene dalla capacità di vedere “oltre” il visibile. Oltre un pacco di sosemeglie, legato da un fiocco di spago, tutto l’Amore che c’è.
mia nonna [Coreno Ausonio (FR), 1926 – 2021]
Tra le cose più incredibili a cui ho assistito fin qui, citerei gli ultimi giorni di vita di mia nonna. Ho visto la grazia di chi sta per lasciare questa vita per andare non so dove, e ho visto gli occhi spalancati e illuminati, di chi (ri)vede davanti quello che è stato indietro. Ci sono sguardi che vedono quello che ancora non è perché già lo hanno visto, e ho l’impressione che questo miracolo sia l’esperienza dell’amore su questa terra.
buon Natale 2023
ChiaraB.
#paroledimemoria “gli sosemeglie“: biscotti natalizi della tradizione corenese. Sulla ricetta di questi biscotti, abbiamo bisogno di aiuto. So che sono biscotti duri, fatti con miele, noci e a volte cioccolato. Grazie a chi ci aiuterà a essere più precisi!
Cosa sono le #paroledimemoria e tutte quelle incontrate fin qi le trovi nella categoria “Parole di memoria“
Riflessioni sul ruolo del dialetto per identità in transizione*.
Transizioni e identità
Viviamo un tempo di transizioni, siano esse processi naturali e culturali “de facto” o “programmi” politicamente disegnati e finanziati.
Pensiamo agli stravolgimenti geologici, per cui si parla della nostra come dell’era dell’Antropocene, in cui l’essere umano con le sue attività è arrivato a incidere sul livello territoriale, strutturale e climatico. Pensiamo alla transizione a cui il Covid e post-Covid ci ha condotti, e pensiamo al terremoto geo-politico ed energetico che la conclamata emergenza climatica sta sollecitando da anni e di cui la guerra, che si consuma su suolo ucraino, ha accelerato gli impatti, ormai in atterraggio violento sulle economie reali dei nostri territori. Pensiamo infine alle grandi trasizioni europee, cd transizioni gemelle, verde e digitale, la cui piena realizzazione, nella visione di Bruxelles, è prerogativa di futuro per lo stessso progetto di Unione europea. Dare “piena realizzazione” a tale transizione implica renderla inclusiva e giusta, preservando dallo scotto del cambiamento sistemico i territori meno preparati al grande salto della digitalizzazione e della neutralità climatica su ampia scala, ovvero ad azzerare l’impatto ambientale da qui al 2050 attraverso la trasformazione di sistemi produttivi, filiere di distribuzione e consumo, stili di vita. Come cambia l’uomo in questo monumentale transitare? Come cambia il sentire la comunità come “propria” e se stesso come parte di una comunità? Che confini ha la comunità dell’uomo delle transizioni? E dove àncora la sua identità? Quali parole la descrivono, la evocano, permettono di riconoscersi ancora simile ad altri, all’interno di un perimetro geografico-culturale? Che valenza ha il territorio nell’accompagnare il singolo e la comunità nella “dovuta” transizione, se è vero che la trasformazione dei contesti, prima che da risorse pubbliche o investimenti privati, passa dalle aspirazioni degli abitanti e dal loro ruolo attivo e in una qualche misura imprenditivo? (Venturi, Zandonai 2019) Domande enormi, a cui tante analisi e punti di vista arrivano a proporre “pezzi”, si spera integrati, di prospettiva. La nostra prospettiva parte da un territorio del basso Lazio e dal suo dialetto, con l’inizativa in erba “Parole di memoria”. Un progretto piccolo, familiare quasi, con un respiro che aspira alla profondità delle radici di cui si nutre.
Parole di memoria, recuperare nel dialetto tracce di identità
“Parole di memoria” nasce da una domanda in parte controintuitiva in tempo di transizione. Si prefigge infatti di usare le parole del dialetto e il loro ancoraggio fisico, quasi il loro manifestarsi visivamente nei luoghi reali del territorio, per contribuire a spostare la riflessione dal più urgente “dove stiamo andando”, al più lento “da dove veniamo” ovvero “quale antropologia stiamo lasciando dietro di noi”. La consapevolezza della memoria ci regala la libertà di scegliere cosa portare verso il nuovo mondo. Una transizione libera ha in sé un esercizio di tradizione, nel senso etimologico del termine, del “trasmettere”, per poter conservare ciò a cui si riconosce un valore, attraverso un esercizio di memoria e di narrazione che usi la lingua che più di altre ha dato forma all’identità territoriale e comunitaria nel tempo e nello spazio: il dialetto. In questo senso abbiamo scelto di interrogare le parole della piccola storia del nostro paese: le Parole di memoria di Coreno Ausonio (FR). “Passeggiare e pensare in natura attraverso le stagioni. Spesso lo faccio in compagnia di mio padre e nel camminare seminiamo memoria, per chi vorrà raccoglierla. Siamo a Coreno Ausonio, accovacciati tra i monti Aurunci, affacciati sul golfo di Gaeta, a 318 metri sul livello del mare, in provincia di Frosinone. Qui è passata la Storia attraverso i secoli, ha fatto sosta la Seconda Guerra Mondiale, lasciando il tracciato della Linea Gustav con il suo sangue, il suo dolore e le storie indelebili. Ogni volta che camminiamo incontriamo delle parole, pezzetti di storie che ricomponiamo, pezzetti di noi”.
“Parole di memoria” sono dei video in cui raccogliamo, dalla memoria di mio padre (classe 1944), le parole in dialetto, cerchiamo di spiegarne il significato e raccontiamo le tradizioni e le storie della comunità corenese e della civiltà rurale che a quelle parole sono collegate. Le Parole di memoria vengono fuori quasi “spontaneamente” mentre camminiamo, un po’ come la stramma, come gliu ventriscu (lentisco) e come le scocciacannate (ciclamini) ai bordi della strada. Sono le parole in dialetto che “descrivono le cose” e al tempo stesso “raccontano la storia” della nostra comunità e dei luoghi in cui questa storia ha preso forma. Riguardano gli eventi belli, la vita di tutti i giorni e le tragedie familiari e universali di cui siamo stati testimoni, anche attraverso i nostri antenati. Attraverso le Parole di memoria recuperiamo non solo la memoria storica e culturale del paese ma anche antropologica, ovvero lasciamo che emerga “l’umanità” che nella comunità si alimentava in modo quasi viscerale, come a definire il dna dei corenesi. Ci piacerebbe che fosse un racconto non solo evocativo ma, nel suo piccolo, generativo di piccoli semi di memoria ma anche di futuro: di quello che siamo stati, che in parte siamo ancora e che possiamo scegliere di tornare a essere, pur nelle forme e nei ritmi della nostra contemporaneità.
Il dialetto di Coreno Ausonio, chiedere ai luoghi “chi sémo”?
“Parole di memoria” raccoglie schegge di dialetto corenese, ritrovate camminando nella campagna e tra le strade del nostro paese che “non è” provincia di Caserta, “non è” Ciociaria, “non è” provincia di mare (Latina), ma confina con le tre aree e nel suo dialetto ne riceve gli influssi, sia in termini morfosintattici che lessicali e fonetici, nonché di codici extralinguistici. Coreno Ausonio ha infatti una forte identità dialettale, legata a un certo attaccamento a tradizioni e cultura di appartenenza, queste ultime simili eppure diverse e specifiche rispetto ai paesi confinanti. Questo fa sì che il “corenese” sia percepito un po’ come una seconda lingua, secondo un modello diglottico. Interessante notare come, sia a livello familiare che comunitario, si stia sviluppando una sorta di semi – dialettofonia di ritorno, collegata a un rinnovato interesse culturale per tutto ciò che è più puramente “corenese”. Interessante anche notare come lo status di prestigio palese e celato legato al dialetto si sia nel tempo di una generazione quasi sovvertito. Se nell’infanzia parlare in dialetto era in qualche modo censurato e collegato più o meno implicitamente a variazioni diastratiche, nella situazione attuale c’è un vero e proprio “ritorno a casa” nell’uso del dialetto, percepito dall’intera comunità sia a livello generazionale che sociale.
Nel nostro piccolo, con i video “Parole di memoria” cerchiamo di mantenere viva la memoria per saper riconoscere le nostre radici e per non perderle. Attraverso le parole del dialetto recuperiamo i ricordi e l’identità del territorio, che è anche la nostra. Mi piace richiamare il fatto che i greci avessero due termini per il ricordo: mneme e anamnesis, il primo per indicare il ricordo come ciò che appare, il secondo come oggetto di una ricerca, di una reminiscenza. Ma, in fondo, il senso del camminare nel ricordo è sempre proprio del soggetto, di chi cercando il “cosa”, attraverso il “come”, incontra il “chi”, ovvero “se stesso”, sia esso un “sé” individuale o collettivo: dal ricordo alla memoria riflessiva attraverso la reminiscenza. (Ricouer 2003)
L’uomo transitante e il patrimonio linguistico di una comunità
La tesi che si vuole suggerire nasce da un’osservazione sorta nel camminare tra le strade del territorio, prendendo atto di come il territorio sia un’entità “parlante”. Che lingua parla il territorio? Dove sono fisicamente collocate e reperibili le parole del territorio? Che cosa racconta attraverso le sue parole? Cosa tramanda? Cosa dovremmo saper ascoltare, per muovere con identità libera attraverso le transizioni del nostro tempo, di cui siamo soggetti attivi e critici, ma a cui rischiamo parzialmente di andar soggetti? La lingua, come la sociolinguistica ci insegna, non ha sola funzione pragmatica, ma ha anche l’aspirazione di conferire identità sociale e riconoscimento comunitario al parlante. Cosi le sue varietà ci permettono di comunicare chi siamo e di rendere le nostre scelte linguistiche pieno strumento di consapevolezza ed espressione del sé. (Santipolo 2022) Riacquistare conoscenza del dialetto e competenza comunicativa sembra essere un atto libero di resistenza e immaginazione culturale per i nostri territori. Linguisticamente parlando, un territorio dovrebbe poter conservare memoria di sé attraverso la lingua che ne racconta non solo l’evoluzione culturale, ma anche le radici antropologiche. La pregnanza del dialetto è nel descrivere e nel definire cose che, se anche non esistono nel presente, informano il nostro codice genetico socio-culturale e identitario. In questo le Parole di memoria hanno la capacità di rievocare e riattivare esperienze di riconoscimento e immaginazione, per il presente e per il futuro.
Riferimenti bibliografici
RICOEUR P. (2003), La memoria, la storia, l’oblio Raffaello Cortina Editore, Milano. SANTIPOLO M. (2022), Educazione e politica linguistica. Teoria e pratica, Bulzoni Editore, Roma. VENTURI P., ZANDONAI F. (2019) DOVE. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Edizioni Egea, Milano.
articolo pubblicato in Saperi Territorializzati, giugno 2023
“Il caos da cui veniamo” / “Il corpo in cui sono nata” .
“Da cui” / “in cui”: c’è come un azzeramento di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzionalità in avanti ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e (forse) parzialmente ci sopravviveranno attraverso altri.
Il caos e il corpo, fenomenologia delle radici
A fine ferie mi capita di passare delle giornate nella “mia” casa di famiglia: dove io sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori, dove sono vissuti i miei nonni che fino all’anno scorso erano presenti, tramandati attraverso il corpo, i ricordi e i molti decenni di vita di mia nonna. In questa casa, in questi giorni, ci siamo io e mio fratello.
Ma le radici hanno una strana fenomenologia. Quando trovano il vuoto iniziano ad emergere, più forti, prepotenti, inevitabili. Per questo, questi giorni di assenza, sono pieni di presenza. Ed è strano come alla fine dei cortocircuiti di memoria che mi attraversano, mentre salgo le scale, mentre cerco nei cassetti, mentre guardo come da quarantadue anni a questa parte fuori dalla finestra, verso la piazza del paese, io mi incontri a ritroso con me stessa.
Immagino che, per vie e vite personali, questo sia il percorso che Tiffany McDaniel abbia ripercorso ed esplorato, scandagliato con enorme onestà e amore nel suo bellissimo libro “Il caos da cui veniamo“, ispirato alla storia di sua madre. Letto con passione già qualche tempo, mi è stato richiamato alla mente dalla più recente lettura de “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel (più famosa per il suo “La figlia unica)
La semantica di entrambi i titoli è molto potente: il primo libro mi ha attratto tantissimo proprio a partire dal titolo, il secondo è stato in realtà un regalo. Questo accendere le preposizioni di moto da/in luogo nel viaggio della vita è una scelta di grande consapevolezza e coraggio. “Da dove” / “in cui”. C’è come un azzeramento percepito di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzione in avanti: ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo, di qualcosa che è successo lì e non si sposterà altrove. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e forse parzialmente ci sopravviveranno in altri.
L’uso appropriato e consapevole di queste preposizioni nella grammatica dell’esistenza è una fondamentale conquista, che non può che esserci regalata da esperienza, coraggio e visione, in relazione assolutamente personale e non matematica con la nostra età che avanza. (E non sono affatto sicura che sia poi una conquista di tutti/e) Il momento della vita in cui ne prendiamo consapevolezza è un momento fondante, di grande liberazione. Il momento in cui diamo voce alla nostra scoperta, puntuale e al tempo stesso sequenziale e rinnovata nel tempo, e scegliamo di raccontare, come hanno scelto di fare le due scrittrici, è un momento di grande poesia.
Per questo “Il caos da cui veniamo” e “Il corpo in cui sono nata” sono due libri di prosa, due memoir se vogliamo, intrisi di questa poesia. Di questa forza propria della “poiesis” che ci forgia, nella genetica e dunque nei nostri tratti somatici come nella nostra cifra esistenziale e nella sintesi travagliata delle cose che si chiama “identità”. Le radici sorreggono chi siamo e gli danno forma, oltre la forma. Questa sono io, perché vengo “da” e sono nata “in”. Questa qui sono io.
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel chiama “Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel
“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel la scrittura di una esploratrice cosmica
“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel, edizione Atlantide è diventato uno dei miei libri del cuore. Confesso di averlo scelto a caldo per il titolo, non avevo mai letto nulla di questa scrittrice (la bella edizione Atlantide ha probabilmente avuto un ruolo nella scelta tra gli scaffali della Libreria ELI, tra le mie preferite a Roma). Una poesia, una purezza, un’eplorazione profondissima e avvincente. Un libro tragico che finisce per decantare la vita. De-cantare, osservarla quando sembra stagnare, putrefarsi e lasciarsi tuttavia incantare dalla scintilla originaria. Dedicato alla figura della madre dell’autrice, “l’Indianina”, che ne è anche la protagonista (Bitty), il libro è illuminato dalla smisurate figure di un padre e una madre in un dualismo delle origini che non può che accompagnarci nella ricerca, a ritroso, di chi siamo. Nella ricerca, che non culminerà nella comprensione ma nell’amore, di quel caos originario che ci ha partorito come stelle impazzite di luce e tragedia.
“Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto di irrequietezza. In fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio. Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Si, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo”.
E non importa in questo libro quanto sia fantastico e quanto sia reale. C’è dentro verità.
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel ovvero “la bellezza fatta donna”
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel, edizione La Nuova Frontiera mi è stato regalato con una dedica che recitava: “Alla bellezza fatta donna”. La dedica mi ha fatto sorridere, perché avevo intuito una misconcezione di base da parte del “donatore di libri” (che mantengo per sua richiesta anonimo) proprio a partire dal titolo.
A fine lettura, mi ritrovo sorpresa da come il senso di questa dedica possa sposare il senso del libro, in un certo senso (e mi scuso per il trasbordare di “senso” in cui a quanto pare sono andata a cadere). Il libro è una sorta di memoir che parte dall’infanzia, segnata dagli irriverenti anni ’70 e da un importante difetto di vista, e attraversa con salti avanti e indietro nel tempo l’esistenza della scrittrice. La persona che nasce attraverso questo libro è bella, perché è una persona che diventa finalmente un tutt’uno con il suo corpo. Quel preciso corpo è suo da sempre, eppure la scrittrice ne riesce a prendere “pieno possesso” solo attraverso ciò che altri hanno inciso proprio lì, nel suo corpo fisico, familiare, sociale. Al centro il rapporto con la madre, la nonna, il padre poco presente ma determinante (come sempre) e due continenti, in un walzer di vita e di morte, reale e apparente.
C’è un apice, un punto di non ritorno, che è quello in cui
“finalmente, dopo un lungo periplo, ci decidiamo ad abitare il corpo in cui nasciamo, con tutte le sue particolarità e a renderci conto che in fin dei conti è l’unica cosa che ci appartiene e ci vincola in modo tangibile al mondo, e insieme ci permette di distinguercene”.
(nel testo in prima persona, ndr)
Il viaggio per arrivare fin qui, in un continuo rimbalzare, slabbrare, richiudersi e rispalancarsi di confini fisici e invisibili è quello che fa di noi “bellezza”. La bellezza fatta persona. Visibile, tangibile, corporea e mai perfettamente afferrabile nel momento presente. Non è un viaggio semplice, quello che ci porta a sentirci un tutt’uno con il nostro corpo, fino a regalarci la libertà della consapevolezza che il “corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo“, eppure in quel corpo siamo nati proprio noi. E solo noi.
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.
Se chiudo gli occhi e penso al mio paese, Coreno Ausonio, una delle primissime cose che subito vedo sono le sue innumerevoli “macère“.
Muri a secco in pietra che mantengono le vallocchie (vallòtthie) – così come chiamiamo qui i terrazzamenti di terreno agricolo – una sull’altra in armonia scalare.
Ho sempre ammirato gli incastri perfetti e la meraviglia della loro resistenza nel tempo. A volte franano. Proprio come noi, che da piccoli le abbiamo usate e consumate per arrampicarci e arrivare nei prati dei nostri pic-nic più belli, dalle loro pietre a incastro perfetto sorretti e delimitati.
Come noi, discendenti di quelli che le hanno costruite secoli fa, e come tutti le macère sono sensibili. Agli agenti atmosferici, all’incuria, al tempo che sfida i loro incastri, Come noi in questo tempo chiedono di essere rialzate, perché baluardo della nostra identità, della civiltà contadina che ci ha accompagnati a essere quelli che siamo e perché frutto di un grande patto di comunità, fondato sulla terra e sulla cura.
Parole di memoria scolpite nella pietra
Le macère franate si chiamano vàrola, l’arte di rialzare risiede nell’aisa’ le vàrola che al singola diventa gliu varu. Per raggiungere la vallocchia (appezzamento di terreno sorretto e delimitato dalla macera) si salgono gli rarigli, opera fantastica di architettura rurale, impressa nella mie memorie di infanzia.
Ci vuole una comunità per rialzare macère
Ci vuole una comunità per rialzare le macère, come per rialzare gli animi e ridare struttura e armonia a un tempo che sembra accasciarsi su stesso e arroccarsi sulle singole individualità scheggiate.
Le abbiamo incontrate queste “macère” ferite, nel corso delle nostre consuete camminate nella natura, sotto i monti, davanti al mare. A Coreno Ausonio, in provincia di Frosinone. E con loro le parole di memoria che trasudano e ci consegnano.
Sono parole di cura, di bellezza e di perizia. Sono come sempre parte di noi. Le ho raccolte da mio padre, e ne riporto qualcuna a memoria collettiva e futura.
Buon cammino nella memoria attraverso le sue parole… e buona ricostruzione a noi tutti.
Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, ogni suggestione evocata o correzione della trascrizione è benvenuta! Se volete seguirci sul canale video Youtube: COFFEE N’ROSES Youtube Se condividete lasciate una traccia con #caffeconrose #paroledimemoria
Per camminare tra le Parole di memoria, date un’occhiata qui.
Parole di memoria è la rubrichetta dedicata alle camminate in natura, con mio padre, e alle espressioni del nostro dialetto che incontriamo.
Per non perdere le prossime e per comunicare con me
Cos’è la folla oltre la somma delle individualità? Cosa è il pensiero quando perde l’originalità e la responsabilità del singolo? Cosa ne consegue è, forse, sempre tragedia.
Attycus Finch, eroe tragico nel romanzo “Il buio oltre la siepe” dell’ineguagliabile Harper Lee (edizioni Feltrinelli) mi richiama alla mente Alain de Monéys e la sua storia (vera) raccontata in “Vita breve di un giovane gentiluomo da Jean Teulé (edizioni Neri Pozza)
Due libri da leggere, al tempo in cui abitiamo i social media. O meglio, in ogni tempo abitato da esseri umani.
A giugno è ricorso il quarantesimo anniversario del premio Pulitzer per la narrativa a Harper Lee con il “Il buio oltre la siepe”. Un libro necessario , come definito da Barack Obama, che ben prima di essere il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America è stato un community organizer a Chicago, lavorando sull’emancipazione e la presa di coscienza dei propri diritti da parte della comunità afro-americana.
Vero, un libro bello, semplice nella sua bellezza come sanno essere solo i libri capaci di colpire, affondare e far tornare a galla l’umanità profonda e complessa che ci abita e ci muove e ci collega.
Da sempre indicato come un libro da leggere contro ogni forma di discriminazione e razzismo, “Il buio oltre la siepe” mi sembra un universale, godibilissimo, sulla natura umana, sulle divisioni e gli steccati che per nostra natura costruiamo e che, per dinamiche sociali, ingigantiamo fino a istituzionalizzarli scientemente o ad assimilarli inconsciamente arrivando ad abdicare scelleratamente alla nostra capacità critica e morale.
“Il buio oltre la siepe” e le lanterne umane
Esistono delle lanterne umane. Gli Atticus Fynch che incontriamo o manchiamo nelle nostre vite, che sono vigili e accese nella nostra società e che permettono che la loro lucetta arrivi anche a noi per propagazione. E le cinghie di trasmissione luminosa sono spesso le più giovani generazioni. Quello che ascoltano, quello che vedono, quello che non capiscono e le interpretazioni che vengono loro proposte dei fatti sono, in gran parte, ciò che in una società fa la differenza per il presente e per il futuro.
La piccola Scout Fynch è colei che, insieme al fratello Jem, nel romanzo di Harper Lee raccoglie la fiammella di una lanterna “gigante” che è il suo papà Atticus Finch. Avvocato. Rispettatissimo avvocato a Maycomb, città “vecchia e stanca” nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America, che si ritrova l’intera comunità contro per aver accettato di assumere la difesa di Tom Robinson, giovane dalla pelle nera accusato di stupro da una giovane dalla pelle bianca. Una figura che mi fa venir voglia retroattiva di fare l’avvocato. Per la sua interpretazione della professione e la sua pratica. Leggere per credere.
Il libro è superlativo da numerosi punti di vista e profondamente emozionante, ma è della sinapsi inaspettata che mi ha attivato che vorrei parlare. Partiamo della scampata aggressione ad Attycus da parte di un manipolo di cittadini di Maycomb, a cui i figli si trovano ad assistere.
In particolare, la figlia Scout “sventa” l’aggressione riconoscendo tra gli aggressori il signor Cunningham, il papà di un suo compagno di scuola. Candidamente identificandosi come “la compagna di scuola e colazioni di suo figlio Walter” getta in crisi d’identità l’aggressore. (Sono il papà di Walter, amico di Scout, figlia di Attycus e sono qui l’aggressore, ciecamente arrabbiato con Attycus!). Quando, il giorno seguente, la bambina stupita chiede al padre come sia possibile che tra gli assalitori ci fosse l’amico di famiglia ed estimatore di Attycus, il signor Cunningham, la risposta di Attycus è un trattato di antropologia e misericordia, che forse è l’unico binomio che ci salverà dal baratro.
Scout “Credevo che il signor Cunningham fosse un nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era”.
Attycus “E lo è ancora!” S “Però stanotte voleva… farti del male”
A “Il signor C. È un brav’uomo, ma come tutti noi ha le sue debolezze”. Jem (fratello di S.) “Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione stanotte ti avrebbe persino ucciso”.
A “Avrebbe potuto farmi qualcosa, ma figliuolo quando sarai più grande capirai un po’ meglio la gente. Una folla è fatta di individui, quali che siano. Stanotte C. faceva parte di una folla ma era pur sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo… anche se ciò non li scusa, ti pare?”.
J “Direi di no”
A “E infatti c’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli tornare in sé!” “Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini. Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che W. C. si mettesse nei miei panni per un attimo, e ciò è bastato”.
La risposta di Attycus racchiude la chiave antica dei nostri misteri di grandezza e redenzione, non importa in quale pozzo di bassezza siamo andati a cadere, nelle azioni, nelle opere e nelle omissioni. La chiave è l’empatia e soprattutto ciò che ne consegue. Chiave di volta, in questi tempi di profonda violenza verbale a cui non raramente fa seguito violenza fisica e di cui la sfera social sembra ergersi ad arena senza confini. Arena in cui siamo immersi che promette interconnessioni e, bolla su bolla, finisce talvolta per edificare muri.
Leggendo questo passaggio, il richiamo a ciò che succede in quelle dinamiche che fanno dei social una sorta di violenta cloaca sociale è stato pressoché immediato, insieme al richiamo di un libro precedentemente letto, meno celebre de “il Buio oltre la siepe, ma comunque un piccolo capolavoro (nel suo genere). Se fossi un’insegnante proprio in questi anni ne farei un testo di lettura obbligata.
“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé
“Vita breve di un giovane gentiluomo” Mangez-le si vous voulez
“Il buio oltre la siepe” mi ha chiamato alla mente “Vita breve di un giovane gentiluomo” di J. Teulé, edito in Italia nel 2011 da Neri Pozza, dal titolo originale molto più appropriato (come quasi sempre succede con i titoli originali) “Mangez- le si vous voulez”, ovvero “Mangiatelo se volete”. Crudo quanto la storia reale che racconta.
La giornata del 16 agosto 1870 per Alain de Monnéys è davvero una giornata campale. Esce di casa da stimato cittadino e benvoluto vicesindaco di Bessauc nel Perigord francese, e non vi farà mai ritorno perché letteralmente mangiato dalla folla dei suoi concittadini. Scrittura superba in una cronaca che sembra sempre sull’orlo di provocare un sorriso, se non fosse che esplode a un certo punto in un vero delirio tragico. Alla base del rivolgimento del sentimento popolare verso il giovane Alain, una voce diffusasi tra la folla (mi verrebbe da dire in rete, ma ops siamo nel 1870) di una sua defezione a favore dell’esercito prussiano (contro cui si era arruolato) e di atti di conclamata infedeltà all’imperatore. Voci. Non verificate. Che il lettore sa essere false. Ma impotente, come il protagonista, assiste al montare della rabbia cieca (ma è poi rabbia la parola giusta?) della folla e alla sua azione violenta e omicida fino a sfociare in episodi di vero e proprio cannibalismo.
“Mangez-le si vous volez” è l’invito provocatorio del semi-attonito sindaco, che viene preso alla lettera dai suoi concittadini in un vortice di inspiegabile violenza e follia omicida. Talmente inspiegabile che durante il processo, che vedrà pochi tra i facinorosi sul banco deli imputati (usiamo facinorosi solo convenzionalmente perché si fa fatica a trovare parole adatte al caso), uno tra loro dirà forse l’unica verità plausibile “Non so cosa mi sia preso”.
Su questo non sapere, e su quello che ci prende quando ci alieniamo da noi stessi – e dagli altri che poi è solo l’altra faccia della medaglia del fenomeno – si giocano le sorti dei singoli che ci passano accanto e del mondo intero, sui social e nelle nostre realissime giornate.
Pensiamoci. E se può aiutare leggiamo e facciamo leggere questi due libri, necessariamente sconvolgenti.
Non riuscirai mai a capire le persone…
PS: “Il buio oltre la siepe” mi è stato regalato da una tra le persone che più stimo, mia amica e al tempo collega. Nella sua dedica il senso.
“…non riuscirai mai a capire le persone se non ti metterai nei loro panni e proverai a vedere le cose dal loro punto di vista…”
con grandissimo affetto
Maria
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.
Volevo scrivere de “L’acqua del lago (che) non è mai dolce” ma poi ho incontrato Rebecca Solnit e i suoi “Ricordi di inesistenza”
Quanti modi abbiamo di diventare noi stesse: tanti e probabilmente nessuno troppo facile. Quanto conta il posto dove siamo, quello dove scegliamo di andare o di stare nel periodo della muta, che dura anni o decenni o forse tutta la vita. Di certo c’è un tempo, un modo e un luogo in cui decidiamo, non chi voler essere ma a quale lato di noi dare un’opportunità, quale coltivare, quale far crescere per poi in un tempo futuro andare a raccogliere la restante parte, missione quest’ultima altrettanto avvincente.
C’è un tempo nella nostra vita in cui saremo integre, ma in quello che io chiamo il tempo della muta ci centriamo su una parte di noi stesse che noi eleggiamo a nostro centro, da cui la nostra evoluzione prenderà forza energia propulsiva per il resto della nostra vita (con i nostri inevitabili stop and go). Una specie di centro karmico se volete, il nostro Io, quella particolare combinazione di neuroni, cellule ed emozioni che darà la direzione alla nostra evoluzione di donne. E ci sono posti in cui consapevoli ci dirigiamo e a volta stanziamo che assistono al travaglio, fino al parto di noi stesse. Perché qui parliamo di donne e di un “moto” a noi stesse. Alla nostra identità situata.
Essere una donna è una discriminante? Si lo è
Lo è stata per le generazioni precedenti alla nostra, e lo è oggi, su intensità e passaggi diversi, forse, o forse neanche troppo diversi. E’ giusto che lo sia, perché siamo diverse, il punto è capire in che modo. Se a modo nostro o no.
Cosa succede in questo tempo, in questo luogo, in questo moto è il centro di due storie che senza volere si sono sovrapposte nelle mie letture recenti ( e nelle mie sinapsi letterarie).
Una rossa Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, di Giulia Caminito (tra i candidati Premio Strega 2021, edito da Bompiani) e un’immensa Rebecca in “Ricordi della mia inesistenza” Rebecca Solnit (edizioni Ponte alle Grazie).
Gaia, e l’acqua del lago che non è mai dolce
In “L’acqua del lago non è mai dolce”, una bambina, poi adolescente, poi giovane adulta si muove tra Roma e la sua provincia, nello specifico Anguillara Sabazia e i borghi attorno al lago di Bracciano, alla ricerca sofferta e rabbiosa di sé. Interessante per me la vicinanza dei luoghi alla mia residenza attuale e l’impenetrabilità del personaggio, piuttosto monolitico e ostinato, da apparire quasi monodimensionale pur lasciando intuire spiragli di dolore e debolezza profondissima. Incapacità di leggersi e di tradursi, di offrirsi all’esterno, nelle amicizie, negli amori, seppur adolescenziali, nelle passioni, praticamente inesistenti. Un personaggio che mi piacerebbe interpretare teatralmente, per il non detto e per quanto si può di questa rossa intuire dalla sua apparente non relazione con gli elementi del contesto: dalla famiglia, disperata ma ostinata nella sua sopravvivenza a conduzione matriarcale, alle amiche del cuore, alleate strumentali alla sopravvivenza, agli amori costruiti e a quelli – suo malgrado – impossibili da reprimere, grimaldello della sua identità.
Rebecca, e i ricordi di inesistenza di tutte noi che poi abbiamo scelto di esistere
Rebecca Solnit racconta se stessa, negli anni dell’esplorazione di sé e della scoperta e della formazione di questo pensiero coraggioso, dissacrante e profondamente innovativo, che si dispiega e si forma nei ”Ricordi della mia inesistenza”. Per me qui il sottotitolo è “Storia di una libertà”. Non nasciamo libere, ma lo diventiamo. Per alcuni è più difficile,. Per le donne il percorso verso la libertà personale ha più ostacoli, che si aggiungono a quelli sacrosanti che ciascuna persona, a prescindere dal genere ha. Attraverso i suoi ricordi Rebecca Solnit ci racconta come è arrivata a fare il lavoro di giornalista, saggista, intellettuale, documentarista che fa e soprattutto come è arrivata a farlo nel modo che è suo, che le appartiene. Come è diventata la donna che è: viaggiatrice, pensatrice, ironica, acutissima, con le relazioni che ha scelto di avere e quelle che non ha voluto sedimentare. Nel farlo ci racconta la San Francisco degli anni ’70fino a quella degli anni ’90, vissuta in prima persona tra i centri culturali d’avanguardia e i movimenti per i diritti civili, lontano dal presidio della cultura più intrisa di occidente che nella Est Coast sembrava strizzare l’occhiolino all’Europa. Nel raccontare il suo lavoro di ricerca sulle comunità artistiche degli anni ‘50 ci racconta pezzi di storia che spesso mancano alla narrativa sulla mitica West Coast, e portandoci nei suoi viaggi nel deserto del Nevada e o al Sud nel Mexico ci racconta una battaglia ambientalista attraverso uno sguardo pionieristico e genuinamente alternativo.
La sua storia è la lettura immersiva ed esperienziale di un contesto in fermento con gli occhi profondamente intelligenti di una donna, che diventa femminista per presa di coscienza.
Alcuni libri si mangiano
Questo è quello che io chiamo un libro da “mangiare”, perché è nutriente e fa bene. Da regalare alle persone in cerca di identità e soprattutto a chi sta rischiando di perderla nel conformismo o nello scoraggiamento di questi nostri giorni.
Non rimpiango (quasi) mai le mie letture, come le mie esperienze. Però non tutti i libri vanno nel mio scaffale dei “libri che amo”, ancor meno in quello dei necessari.
Rebecca Solnit* con i suoi “Ricordi della mia inesistenza” c’è, e ci resterà.
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*Rebecca Solnit , per rendere l’idea, è quella del mansplaining, o meglio – come lei racconta – fu un lettore del suo celeberrimo saggio “Gli uomini mi spiegano cose” a coniare questo neologismo per identificare il fenomeno da lei individuato e descritto, quando ahimé ne eravamo già afflitte senza averne sufficienza coscienza. Il saggio è del 2008, il New York Times ha eletto “mansplaining” parola dell’anno nel 2010 e nel 2014 è il termine è entrato nel dizionario.
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.
Abbiamo fatto molte passeggiate in questo inverno, nell’anno della pandemia. La natura ci ha salvati in tanti giorni e così la memoria, attraverso le parole del dialetto e le immagini di questa nostra piccola storia, rannicchiata tra i Monti Aurunci. Cosi la storia del nostro paese, Coreno Ausonio, ci torna e ritorna, a sorsi, davanti agli occhi. E nel cuore. Ci prepariamo a entrare nella primavera. E a tutto quello che rinascerà, sempre e nonostante tutto. Qui il video con le parole che abbiamo incontrato, nell’ultima passeggiata di inverno (2021).
La memoria ci insegna la resistenza e una forma atavica di resilienza.
Come la stramma, la prima parola che abbiamo incontrato in questa nostra passeggiata invernale. Un’erba infestante che ha saputo donare al territorio corenese, nel tempo, una risorsa economica importante, in una filiera micro-imprenditoriale sviluppata artigianalmente attorno allefugniovvero le funi, agli capisti – le funicelle poco lunghe usate per legare le fascine di legna o la stramma appena raccolta – finoagli strugli usati per comporre le rate, piani di appoggio per distendere ed essiccare cibarie varie, soprattutto uva e fichi.
Parole di memoria sparse nell’inverno
Come sempre quando camminiamo nella natura corenese, abbiamo incontrato innumerevoli cerque, le querce, svestite per la stagione e le loro simpatiche “palline” gli cucùri, in aggiunta alle preziosissime gliande, le ghiande.
Arrivederci, Inverno!
Con questo video salutiamo l’inverno, che abbiamo attraversato da dicembre a febbraio e ci prepariamo alla prossima passeggiata di primavera. A tutti buon tuffo nella memoria, negli odori, nelle atmosfere e in quella promessa di felicità semplice che solo i ricordi che la nostra terra emana ci sa dare.
Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, ogni suggestione evocata o correzione della trascrizione è benvenuta!
Se condividete lasciate una traccia con #caffeconrose #paroledimemoria
Per comunicare scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara) Ps: a breve avremo la nostra piccola newsletter, ma al momento intrattengo ancora ed esclusivamente corrispondenze “di penna” (via email) ;0)
Natale 2020 a Coreno Ausonio (FR). Passeggiando sulle nostre montagne “pe’ la via re Vallauria” abbiamo incontrato i ricordi delle nostre tradizioni natalizie.
Le parole hanno portato le immagini e la memoria ha preso a camminare insieme a noi al ritmo di una filastrocca che inizia così: “Oì zia Cosa scegnesce caccòsa...” (…).
La casella della Ripa, sotto il monte Maio: la memoria dei miei bisnonni
Ci siamo fermati alla casella della Ripa, per condividere e fissare le parole in immagini. La Ripa, la casa in pietra nel video, era la casa di campagna dei mie bisnonni. Mia nonna mi racconta sempre delle sue estati qui, e della sosta d’emergenza per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi (che comunque arrivarono anche qui) prima di essere sfollati fuori dal territorio di Coreno (ma questa è un’altra Storia).
A riprendere Sergio Monetta, a ricordare mio padre Antonio (da sempre Tonino), ad ascoltare io e mio fratello Flavio.
L’orizzonte invernale, gli ulivi e le nostre pietre sempre al nostro fianco. Davanti a noi Gaeta che poggia nel Golfo come una balena ormai familiare. Il vento a tratti fortissimo.
Auguri di resistenza e resilienza nel 2021
Questo breve video parla di noi. E per tutti noi è un augurio di resistenza, resilienza e di una certa inspiegabile fiducia nella vita che contraddistingue le nostre radici contadine.
Le #paroledimemoria di dicembre nelle filastrocche di Natale
In questo mese abbiamo raccolto il ritmo della felicità semplice e inspiegabile che scandiva i giorni di Natale negli anni del dopoguerra, anni di difficoltà economica ma di grande dignità, e come ricorda mio padre “di grandi sogni”.
Gliu cocò / zia Cosa
Gliu cocò è lo strumento che ha dato il nome all’intero “rito”, un antesignano del “dolcetto – scherzetto” che si accompagnava di filastrocche che suonavano così:
Oi zia Cosa, scegnésce caccòsa,
caccòsa alla spagnola / alla salute re zi' Gnicola. E si ce l'adda scegne, scegnascella lestu, lestu e correnno ca tama i' cantenno,lestu e correnno ca tama cammina'.
E continuava con una serie di strofe “augurali”, tipo:
Si ce scigni nu corneglio (= dolce tipico natalizio) puzzi fa' nu figliu beglio, si ce scigni na caramella puzzi fa' na figlia bella (...)
E alcune personalizzabili, come:
Agliu susciu, agliu susciu,si thu nu me canusci, so gliu figliu re Bongiuagni, scegnamigliu nu pirtuagliu (= arancia)
Gli cunthi sono i racconti della tradizione, prevalentemente orale (mi piacerebbe ricordarne per intero almeno uno di quelli che mi raccontava la mia bisnonna) e le suscelle sono le carrube, usate nell’immediato dopoguerra (anche) come surrogato dei dolci per i bambini.
E’ solo un assaggio del Natale corenese, parole portate dal vento in una delle nostre passeggiate dicembrine nella natura che abbraccia per intero il nostro paese. Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, se avete strofe, tradizioni e parole di memoria da aggiungere… sono benvenute, come ogni altra suggestione o correzione della trascrizione!
Bono Natale, megliu Capu r’agnu, come gli ‘amo vist’auanno accussi a centautagni
Per comunicare scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara) Ps: a breve avremo la nostra piccola newsletter, ma al momento intrattengo ancora ed esclusivamente corrispondenze “di penna” (via email) ;0)
Ho scelto di fare le vacanze in Italia, al mare, sotto il sole splendente e sono una sopravvissuta felice.
Ponza al vento – foto @caffeconrose (agosto 2020)
Mi è tornato il desiderio di mare in estate, dei suoi colori, odori, luce e calore sulle pelle, non solo nelle ore della sera. Del suo vagare in costume e ciabatte e capelli di sale, in ogni angolo di isole e promontori. Del suo richiamo a immergersi in acque corpose e a seguirne per ore le onde, raffreddando i pensieri sotto il sole rovente.
Chi ha un’anima novembrina come la mia, certificata alla nascita, può capire cosa ciò significhi. Chi frequenta gli archetipi delle divinità femminili, altrettanto: un ritorno a celebrare Afrodite, nella luce accecante dell’estate mediterranea.
E’ stata una bellissima estate.
Qui sotto qualche impressione in più raccolta nel mio girovagare marino di questa estate 2020, estiva come non capitava da anni. (NB: Non scrivo qui riferimenti a strutture ricettive e similia, ma se avete curiosità scrivetemi pure e vi risponderò).
Luglio 2020 – Gargano – Puglia
La mia estate marina è cominciata con una settimana nel Gargano, a luglio. Camping, con possibilità di appartementini (noi abbiamo scelto quest’ultima opzione). Immersi nel verde, struttura dalle atmosfere gipsy anni ’70, no linea del telefono, wi-fi abbastanza debole da desistere se non strettamente necessario. Spiagge bianche di sassolini, rocce luminosissime, sovrastate da pinete profumate di mediterraneo, cielo azzurro, dorato e screziato di rame e argento la sera. Acqua che trattiene colori e odori di tutto questo.
Lunghissimi bagni in acque cangianti, escursioni mistiche in canoa nelle grotte della costa, trekking con panorami azzurro- verde-marrone. Ovunque luce. Pasti a base di pesce, pane e pomodoro, pane cotto, formaggi e carni di ogni spessore. Borghi e loro abitanti che celebrano il risveglio estivo (entro le misure del Covid), pur mantenendo integro il loro cuore piuttosto chiuso e a tratti vicino all’inverno, per chi sa ben guardare.
Cose “Coffee N’Roses” – Gargano:Spiagge – Vignanotica, Baia di Campo (altre molto promettenti ma chiuse per Covid: Sanguinara, Pugnochiuso); Trekking – Sentiero dell’amore (partenza da Vignanotica); Paesi: Rodi Garganico e la strada per arrivarci al tramonto su tutto il resto; Cibo: pane e pomodoro e pane cotto in vetta seguiti da polpo in tutte le salse; Accessori: da portare ciabattine per spiagge di sassolini appuntiti, per una volta la TRE che non prende mai, figuriamoci lì. Nota: il Gargano lo abbiamo esplorato anche d’inverno, precisamente a Capodanno. Se siete anime profondamente invernali merita moltissimo in quella stagione… ma ops, qui stiamo parlando di estate.
Agosto 2020 – Isola di Ponza – Lazio
Le isole in agosto sono state per un po’ “l’ultimo posto nella classifica delle vacanze che vorrei”. Eppure respirare l’aria di un’isola ormai miticamente estiva, impregnata di colori pastello acceso, voci di gente allegra e volti segnati dal sole, ottime cene e fiumiciattoli di vino nelle vene, per tre giorni, mi ha fatto bene. Avevo girato l’isola e le sue baie in barca anni prima e avevo apprezzato, ma quest’anno non abbiamo preso barca, e l’abbiamo vissuta a ritmo lento, a partire dalla sua zona alta Villaggio dei Pescatori. Di Ponza mi ha fatto bene l’atmosfera estiva all’ennesima potenza, ma anche quella luce apparentemente educata del Tirreno che tuttavia si imprime a livelli profondissimi, come se emettesse radiazioni capaci di raggiungere e far risuonare le migliori vibrazioni, non importa dove siano andate a nascondersi.
Cose “Coffee N’Roses” – Ponza: Il Villaggio dei Pescatorie l’hotel dalle casette color pastello in cui dormivamo; la colazione in terrazza con la maga Circe che continua a sognare davanti ai nostri occhi pieni di azzurro (tradotto: si è molto vicini al Promontorio del Circeo); il mare onnipresente, le piscine naturali la sera; Chiaia di Luna al tramonto (anche se non si può scendere in spiaggia); il giri in taxi tra i luccichii del verde isolano prima del tramonto; gli spaghetti ai gamberi rossi e il vino, tutte le sere; la frittura di calamari e la birra ghiacciata tra gli odori salmastri; le targhe sui palazzi colorati che raccontano la storia dell’isola oltre le settimane di agosto; le barche piccole dei pescatori, ciascuna con il suo nome, al porto, di notte prima di salpare.
Agosto 2020 – Isola d’Elba – Toscana
L’isola d’Elba mi chiamava a sé dalle elementari, quando fantasticavo dell’esilio napoleonico e già la mia natura introversa un po’ ne invidiava le sorti. Quest’anno ci sono andata in estate e ne ho respirato le meraviglie. L’Isola d’Elba mi è piaciuta molto; per esser stata su un’isola ad agosto, mi ha sorpreso quanto io sia stata bene circondata dalle sue acque, coccolata dai suoi colori, mai gridati, ma soffici, eleganti, intensi, profondi al punto giusto. Originali. Questo è il tratto dell’Elba che mi porto dietro: il suo essere un’isola con un modo tutto suo di esserlo. Facendo l’occhiolino all’antropologia isolana e toscana allo stesso tempo, con quel pizzico di rudezza e imprevedibilità d’animo che hanno sempre e dovunque i marinai ma con quella inalienabile consapevolezza della propria bellezza che rende i toscani tali. Nuotare, nuotare, nuotare e aspettare il tramonto in semi solitudine sulle scogliere accanto alle più famose spiagge stracolme, qualcosa da provare. Viaggio on the road con la mia amica di viaggi on the road, camping in tenda a Cavo, la meno gettonata dell’isola, perciò a me molto cara. Camping spartano ma con piazzole super, a mo’ di giardinetto privato, immerso nel verde, lontano dalla confusione inevitabile. Dei colori del mare e del nuotarci dentro, non posso dirvi molto se non che la mia esperienza è stata di nuotare, osservare, respirare l’argento. Per me l’Isola d’Elba è l’isola d’argento e chi ama i toni freddi sa come questo possa risuonare internamente. Anche il rumore dell sue onde, mai fragoroso, mi richiama ancora nel ricordo a un ridere argentino.
Assolutamente da girare in macchina, da godere del suo vino bianco, freddo e delle cene di pesce fino a non poterne più, se mai “non poterne più” fosse una condizione realizzabile, nelle serate che sono solo la continuazione delle giornate di sole, che sono la continuazione delle nottate di stelle.
Cose “Coffee N’Roses” – Isola d’Elba: Ie belle case mai volgari, riecheggianti di passato e a lui fedeli nelle architetture e nelle posture; i tramonti dovunque, qualsiasi sia la luce, il più bello, di un arancio freddo, riscaldato di rame sulle scogliere di Cottoncello; la vista da Monte Capanne per affogare d’azzurro (se volete arrivarci in cabinovia calcolate la fila, lunga e calda ad agosto, poi 20 minuti per salire e altrettanti per scendere, mentre a piedi il percorso di trekking – dicunt – è di scarse 3 ore); il rosa di Portoferraio, le scogliere bianco ghiaccio accanto alla gettonatissima Fetovaia, gli gnocchi alle uova di pesce in veranda sulla spiaggia delle Forcelle, il chioschetto d’antan nella spiaggia di Topinetti, il gelato sul lungomare a Cavo, la gita in bici da Cavo a Rio Marino (bici fornite dal campeggio), le stradine e i panni stesi ad asciugare, profumatissimi di Rio Marino. Cose per la prossima volta – Per acclamazione popolare, aggiungo qui l’isola di Pianosa e le sue acque, dicono quintessenza della bellezza delle acque marine, a cui però non è facile arrivare in agosto, perché l’agenzia che organizza la gita in barca, unica nell’isola (almeno da quanto siamo riuscite a sapere) da copione ha le prenotazioni già piene da tempo. Mio personale rammarico non aver familiarizzato sufficientemente con l’anima mineraria che connota l’isola, pur avendola fortemente intuita attraverso le rocce e i richiami costanti alle miniere e alla vita dei minatori.
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Amo talmente l’autunno da non poterne parlare, come per un amante di cui non si possono metter in piazza dettagli di assoluta intimità. Ho bisogno, ogni anno, di scendere nell’inverno, nel suo silenzio, nel suo caldo artificiale che mi da il senso del freddo con cui tutti conviviamo a certe latitudini dell’esistenza. La primavera… scusate sono umana, non posso non essere travolta dal suo risveglio delicato e inesorabile, in ogni angolo del globo (a emisferi alternati) .
Con l’estate ho un problema. L’estate mi da gioia e luce a dismisura, talmente fuori misura che negli anni ha creato qualche imbarazzo. Il caldo mi stordisce, nel senso vero del termine, e non necessariamente positivo.
Nelle sere di amarcord con le mie amiche di gioventù, si narra ancora di mitologiche insolazioni nel bel mezzo di vacanze studio a Malta, al largo del mare delle Canarie nel corso di coraggiose esplorazioni in canoa a mezzogiorno d’agosto, come di boccheggianti escursioni nei deserti dell’Africa del Nord e di corpi color aragosta su indimenticate corriere blu anni ’90, di ritorno da sfrontate giornate di mare, spiaggia libera, senza ombrellone.
Con l’età che amiamo chiamare della maturità – decidete voi quando inizia, perché personalmente ho perso memoria dell’ingresso – ho iniziato a scegliere sempre più vacanze autunnali, anche nel cuore dell’estate, paesi freddi o emisfero opposto, per poi incontrare le mie amiche al ritorno e raccontarci le nostre estati spesso diametralmente opposte davanti a una pizza romana settembrina, maglietta di filo – maniche lunghe.
Insomma, ho un problema con l’estate: mi manda in estasi a guardarla, ma esistenzialmente ho sempre avuto l’impressione di non averne pieno accesso, se non dopo le ore 18. Come tutto nella vita, non è un problema solo fisico, anche se è il fisico mandare i primi segnali di allarme: “soggetto poco resistente all’estate”.
Buon autunno, a chi legge ora , sul finire dell’estate.
Quando perdo lucidità o interesse nell’osservazione delle persone reali, per non essere contagiata dal mio stesso pessimismo antropologico (latente ma vigile), mi giro a guardare le persone che incontro nei libri, facendo finta che non siano ancora più reali di quelle che incontro fuori. Così in questi giorni mi capita di concentrarmi su una mia “lunga” conoscenza: Lizzie di Shirley Jackson, incontrata mesi or sono nell’omonimo romanzo.
Dico lunga perché questo libro l’ho molto desiderato, ho girato diverse librerie prima di trovarlo disponibile, ho iniziato a leggerlo con grande entusiasmo e curiosità verso questa ragazza apparentemente svampita e regolare, ma a un certo punto Lizzie ha iniziato a infastidirmi. E quindi non sono riuscita a leggere la sua storia, se non a piccole dosi. Risultato: l’ho finito solo qualche giorno fa.
Pensando a Shirley Jackson, alla sua scrittura e poi guardandola negli occhi (in foto), ho avuto da subito l’impressione di essere davanti a un’anima gotica e immaginifica, con una punta di ironia da non sottovalutare mai.
Avevo letto “Abbiamo sempre vissuto nel castello” e mi aveva letteralmente deliziata, avevo degustato ogni giorno, come in un rituale tè corretto all’alcool puro, quella dissonante armonia familiare quotidianamente celebrata in un ambiente che prometteva radiosità e restituiva mistero.
Lizzie, no. Non sono riuscita a frequentarla se non a piccole dosi. La sua personalità caleidoscopica e violentemente screziata, divisa nelle sue quattro ragazze – Elizabeth, Beth, Betsy, Bess – mi ha restituito la percezione interiormente distopica di una personalità, disintegrata ma potentissima.
Questo è quello che mi è piaciuto di Lizzie, nel suo essere disturbante: la potenza. Il suo imporsi, in una vera e propria tragedia personale dell’identità, senza scendere a compromessi e mediazioni con se stessa, senza possibilità di ricomporsi, senza volontà in fondo di ricomporsi, nella purezza di ogni singola persona che abita il suo essere.
Così mi ha colpita nell’anima questa Lizzie molteplice, incapace di generare alcuna forma di equilibrio, per quanto posticcio, in se stessa che le permettesse di continuare a vivere in società, pur a suo modo provandoci.
Per questo, il finale mi ha fatto piangere.
L’annullamento di una identità disturbante, nei suoi chiaroscuri violenti, in una ricomposizione pacifica, armoniosa e quasi amabile, talmente vuota da poter essere riempita dalle proiezioni dei suo assassini benefattori, il dottor Wright e la zia Morgen.
Così si celebra la vittoria di un terapia appassionata e movimentata, mossa dall’umana buona fede e sostanziale benevolenza di medici e familiari,
Alla fine Lizzie non c’è più, ma io penso che altrove tornerà.
***** Piccola nota ( e un film in arrivo)
“Lizzie” è un romanzo di Shirley Jackson del 1954, edito in Italia da Adelphi. Da “Lizzie” è stato tratto il film “La donna delle tenebre”, di Hugo Haas con l’interpretazione di Eleonor Parker. Io non l’ho visto, ma conto di recuperare.
Shirley Jackson nasce a San Francisco nel 1916, sotto il segno del Sagittario. Vive e scrive per vent’anni in un villaggio del Vermont, North Bennington con il marito e i tre figli. Qui muore nel 1965. A Shirley Jackson è ispirato il film Shirley che, diretto da Josephine Decker con Elizabeth Moss, ha debuttato quest’anno al Sundance Film Festival, e pare che uscirà (speriamo on line) il 5 giugno. PS se siete curiosi di vedere il volto di Shirley Jackson (l’originale), qui un assaggio di immagini da Google.
In questi giorni come in un rigurgito universitario mi tornano in mente la Scuola di Francoforte, la società del consumo e l’individuo eterodiretto. Dal mio divano, sul quale staziono fino a data da destinarsi (quando non sono alla scrivania).
My quarantine
Strane associazioni in un periodo in cui la sfera del moriniano loisir è decisamente compressa.
Eppure questo magone insieme a una sensazione di profonda lucidità mi si è installato dentro, da qualche parte tra il cervello, il cuore e lo spirito fin da subito. Per settimane non ho trovato le parole per descrivere questa quarantena. Tuttavia da subito mi ha colpita un’impressione forte di qualcosa che non riuscivo a ben rappresentare. E probabilmente non ci riuscirò neanche ora, perché la avverto intimamente connessa a uno stato di silenzio necessario. Probabilmente è stato proprio il silenzio, il grande assente, a colpirmi.
Il vuoto a fronte di questo pieno forzoso, che ci assale da ogni dove, da ogni dispositivo lasciato acceso. Come una spia a intermittenza continua dentro di noi che, angosciosa, ci chiede se mai potremmo veramente, seriamente spegnere il nostro smartphone, senza fare finta, senza continuare a essere scansionati finanche nel sonno.
Il mio bisogno primario al momento sembra essere il silenzio, e mi trovo a pensare a quanto buffa sia questa situazione, in cui proprio in tempo di isolamento il silenzio è merce tanto rara.
“Così poco abili anche noi a non dubitare mai di una libertà indecente”*
Siamo diventati consumatori talmente abili da incanalare la nostra intera vita nei parametri del consumo. I social media, per quanto io non sia un’apocalittica, ci danno in questo una grossa mano. E proprio in questo periodo lo vedo con grande chiarezza, come dato di esperienza sociale, ben oltre ogni teoria dei media.
Siamo diventati consumatori talmente abili da vivere consumando la nostra stessa immagine attraverso gli occhi degli altri. I social hanno tanti, indubbi meriti, ma questo grande e grave demerito. Aver perfezionato il modello del consumo dei media di massa. Mi ritorna così alla memoria la mia amata Scuola di Francoforte – non per ferree argomentazioni e teoria sistemica, la configurazione delle mia memoria lo impedisce – con il suo consumatore perfetto, espressione dell’antropologia moderna.
Ho come l’impressione che abbiamo necessità di consumare anche noi stessi per essere. Siamo soggetti fortemente oggettivizzati, per nostra stessa condotta. Il consumo è sostanzialmente il conduttore di molecole di ossigeno nella nostra bolla. Le molecole del senso si aggregano attraverso dinamiche di consumo. I consumi nella nostra bolla, di contenuto, di immagini, di proiezioni, di mi piace, non mi piace e vedi anche, ci legittimano a “restare nella bolla” e ci dicono sostanzialmente chi siamo attraverso l’elaborazione algoritmica e il feedback spesso frettoloso – ma più rilevante di quello che ammetteremmo a noi stessi – di altri.
Non più aspiranti consumatori di massa, consumiamo la nostra stessa bolla, di essa ci nutriamo con i mi piace che diamo e quelli che riceviamo, in un meccanismo di costruzione di identità quanto mai eterodiretto, che in maniera predittiva suggerisce e conferma il consumatore che siamo. Il tutto mentre siamo comodamente seduti (?) sdraiati (?) al bivacco spinto (?) sul divano di casa, fino a data da destinarsi.
“Voglio trovare un senso a questa condizione, anche se questa condizione un senso non ce l’ha”**
Perché tutto questo mi salga fortemente alla mente in questi giorni, resta in parte da decifrare, ma come sempre è più per un’intuizione che per un ragionamento ben organizzato.
C’è un tale rumore in questi giorni, il lavoro che ha preso accelerate inimmaginabili, le dirette, i corsi gratuiti, le offerte di qualsiasi cosa e forma per scongiurare la nostra fuoriuscita dalla bolla e la noia.
La nostra santa, sacrosanta noia di uomini liberi pur se soggetti a misure di isolamento forzato.
Sappiamo vivere senza consumare? O meglio sappiamo dire chi siamo senza consumare o offrici in pasto al consumo di altri?
Sappiamo “stare”, senza perderci, quando non possiamo affidare alle dinamiche del consumo il veicolo della nostra identità? In queste settimane l’eco di queste domande è molto profonda, e forse un po’ subdola. La mia personale risposta è “non ne sono molto sicura”.
Siamo intrisi del principio della prestazione, anche in questo tempo. “Come stai vivendo questa quarantena?” “Cosa stai facendo per non sprecare questo tempo che cause di forza maggiore sembrano spingerti a perdere?”
Tornando a Morin e alla sua etica del loisir – semplificando, per l’uomo moderno non è il lavoro, in quanto produzione a definire l’identità ma il consumo di momenti ludici e ricreativi (loisir) – mi sembra che si stia consumando un cortocircuito tragico. E che la condizione che alcuni gruppi sociali vivono in queste settimane di lockdown faccia da cassa di risonanza perfetta, pur se con una certa discrezione (io stessa mi percepisco qui).
Siamo diventati i consumatori perfetti, perché la sfera della produzione e del consumo tendono a coincidere.
Il nostro tempo del loisir è sempre più sovrapposto a quello del lavoro, almeno per i lavori più fortemente collegati alla sfera della conoscenza. E’ un nuovo “spirito del tempo”, in cui ancora una volta i media da determinati sono diventati determinanti, influenzando il nostro modo di essere, laddove un mutamento tecnologico spinge verso una trasformazione culturale e sociale, azzarderei antropologica.
Così i “divi hollywoodiani” che consumavamo negli anni dei mass media, rischiano di diventare i nostri ego, in questa vanagloria social che senza soluzione di continuità ci traghetta nel nostro tempo e spazio virtuale, dal lavoro al tempo libero e rimbalzo.
“Da ciceronessa che spiega com’è bella com’è bella sé stessa”***
Sarà questa situazione estrema che mi spinge verso orizzonti estremi, sarà che ieri ho visto “The Great Hack” (il necessario documentario sull’affare Facebook e Cambridge Analitica). Ma nella dinamica del consumo uomo – oggetto, mi sembra di vedere un rischio dilagante per cui il secondo termine della relazione possa diventare il – se stesso di ciascuno di noi, e in qualche modo cannibalizzarci.
I dati che tu produci (in questa infoperformance collettiva e senza tregua, ndr) come un boomerang, possono determinare la persona che diventerai, a prescindere dalla tua volontà, concludeva David Carroll, in The Great Hack.
Perché tutto questo mi venga in mente nel 40qualcosesimo giorno di quarantena, in regime di virtualizzazione spinta delle relazioni, esattamente non so. Ma un’intuizione, disordinata come da mia natura, mi guida.
Alcune letture di ispirazione in ordine sparso (edit 30 aprile)
Psicologia dei nuovi media di Giuseppe Riva (ed. Il Mulino) La libertà ritrovata di Franck Schirrmacher (ed. Codice) Lo spirito del tempo di Edgar Morin (in italiano ed. Meltemi) L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse (ed. Einaudi) WE, The City. Intelligenze civiche nella smart city (mio piccolo studio in cui ho condensato un po’ di spunti, qui: www.slideshare.net/ChiaraBuongiovanni/we-the-city-intelligenze-civiche-nella-smart-city)
In lettura Accelerazione e alienazione di Hartmut Rosa (ed. Einaudi) L’abisso dei social media. Nuove reti oltre l’economia dei like di Geert Lovink (ed Università Bocconi)
Suggeriti da voi Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni di Cal Newport (ed. ROI) – Grazie Diara Diallo (via Facebook) Avere o essere di Erich Fromm (ed. Mondadori) – Grazie Sergio Monetta (commento in diretta) (…) vostri suggerimenti di lettura per assonanza di temi o per associazioni di idee, sono benvenuti!
E’ stato con grande piacere e sorpresa che – insieme a cibi, musica e nuove relazioni – durante la Festa Nazionale dei Borghi Autentici d’Italia a Barrea (Abruzzo), ho gustato la proiezione del docufilm “In questo mondo” di Anna Kauber, dedicato alle pastore italiane.
Un racconto corale e senza trama apparente, che scorre in un cammino lento e sorprendente attraverso le terre alte italiane e la loro bellezza aspra e profonda, oltre ogni stereotipo di genere e vari altri.
“In questo mondo”, titoli di coda
Al centro le pastore, narratrici e uniche attrici di una realtà ai più insospettabile: in Italia esistono decine e decine di donne pastore, presenti in tutte le regioni (oltre cento quelle censite e ascoltate da Anna Kauber nel suo lavoro di ricerca e racconto) .
Venti le pastore che nel docufilm danno voce e volto a una verità per me ancora più sconcertante: essere pastora è oggi in Italia una scelta ed è una scelta di profondissima libertà.
Di stereotipi le pastore ne confutano molti, rendendo evidenza di una profonda intelligenza femminile che prescinde dalla “capacità” (fisica e non solo) che la gestione di greggi e mandrie richiede, per di più in alta quota e in alcuni casi addirittura in mobilità continua, senza una “stalla fissa”. Per come la vedo io sarebbe bello se ognuno trovasse in questo film il suo stereotipo da farsi confutare. Dai modelli patriarcali in ambienti rurali alla determinazione femminile in culture ostative del cambiamento in continuità eterna con la tradizione, dalla questione delle terre alte e del loro spopolamento di senso, persone e attività a un modello di pastorizia al femminile connotato in maniera del tutto specifica, da una espressione fortissima di “sorellanza” e di empatia con gli animali a un nuovo ambientalismo fino a un femminismo “radicale” nel vero senso del termine che diventa perciò profondamente rivoluzionario. Un senso positivo della vita e una profonda accettazione della morte. Scegliete voi cosa le donne pastore possono insegnare.
A me hanno lasciato due impressioni molto forti:
la capacità profonda di amare e apprezzare la natura rende le persone creatrici di poesia e trasmettitrici di bellezza, anche in contesti e attraverso immagini non facili;
la libertà intellettuale prescinde dal livello di istruzione e da qui una catena di pensieri sull’emancipazione femminile e sugli stereotipi in cui l’abbiamo imbrigliata, pur in buona fede. Non escludo affatto che su questo dovremmo fare due, tre o anche quattro passi indietro, come magistralmente ha fatto la regista, durante le riprese.
In ultimo, ma non da ultimo, sorprendente e rincuorante che le Pastore esistano “in questo mondo” e siano per un verso o per un altro donne come noi. (vedere il film per credere)
Ps: non è piaciuto solo a me!
Anna Kauber alla proiezione del suo docu-film “In questo mondo”, a Barrea
Commenti entusiastici e vibranti quelli raccolti nella saletta di Barrea, a conferma di un curriculum già di rilievo. “In Questo Mondo” è stato il Vincitore Miglior documentario Italiana.doc al Torino Film Festival 2018, perché riconosciuto come un “film immersivo che rende le immagini corporee e ci contagia con i segni di un rapporto vivo e appassionato al mondo”. Interessante sapere, come Anna Kauber con giusto orgoglio rivendica, che “In questo mondo” è nato da un lavoro sul campo durato due anni, che ha di fatto aperto un filone di ricerca multidisciplinare sulla pastorizia femminile in rapido sviluppo. Assolutamente da tenere d’occhio.
Le pastore, una a una
Le cito perché i loro nomi ( e i loro volti) sono la storia: Maria Pia Vercella Marchese, Michela Battasi, Donatella Germano, Rosetta Germano. Gabriella Michelozzi, Caterina De Boni Fiabane, Assunta Valente, Anna Arcari, Maria Oliveto, Efisia Podda, Lucia Colombino, Marica Colombino, Elia Nicolai, Alessandra Tomei, Addolorata Di Fiore, Rosa Aquilanti, Brigida Ciorciaro, Rosina Paoli, Anne Line Redtroen, Aste Redtroen, Assunta Calvino, Michela Agus.
Se lo avete visto o se lo vedrete, fatemi sapere che ne pensate!
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La proiezione del docu-film “In questo mondo” a Barrea, durante la Festa Nazionale dell’Associazione Borghi Autentici, lo scorso 31 agosto non è casuale. Per capire cosa intendo, qui sotto la presentazione dell’Associazione, come da loro sito.
Borghi Autentici d’Italia è una rete fra territori dove protagoniste sono le persone e le comunità, realtà che decidono di non arrendersi di fronte al declino e ai problemi ma che scelgono di mettere in gioco le proprie risorse per creare nuove opportunità di crescita: realtà che appartengono a quell’Italia che ce la vuole fare.
ps: foto prese in prestito da Sergimon, perché il mio smartphone – macchinetta fotografica – tante altre cose è morto senza appello qualche giorno fa.
Pur sempre affascinata dalla scienza, complice la mia fantasia indisciplinata e il più delle volte controproducente, sono stata spesso accusata di aggiungere qualcosa di troppo e non propriamente verificato nelle rappresentazioni dei fenomeni.
Così, oggi che non ho più il mio amato-odiato Huawei P9, rovinosamente caduto e deceduto all’istante su un apparentemente innocuo prato romano, nella cornice seicentesca di Villa Doria Pamphili, mi sembra di avere più chiara davanti a me la struttura della mia memoria, da oggi amputata di circa due (forse tre) anni di vita immaterialmente tradotti in numeri, contatti, foto, video, chat, messaggi, note.
Nata sul finire dei ’70, ho sviluppato una certa familiarità con la memoria dichiarativa, la memoria procedurale, la memoria emotiva (…) ma qui mi trovo a fare i conti con un altro pezzetto della mia memoria: la memoria digitale (e con le domande di profonda fenomenologia applicata che ne derivano) . Cosa succede quando perdiamo la memoria digitale? La nostra memoria digitale, tutta esterna a noi e ai supporti su cui possiamo ancora esercitare un controllo?
Succede che viviamo un piccolo terremoto. Un piccolo, infinitesimale ma personalissimo “ground zero”. Punto di non ritorno o di ripartenza.
E la cosa che più mi sorprende è cosa possiamo quando la nostra memoria digitale viene così gravemente compromessa. Risposta: NIENTE.
Solo ricominciare. E stupirsi di quanto possiamo essere digitalmente resilienti, nel constatare che si tratta pur sempre di un nuovo, faticoso e un po’ doloroso inizio.
PS: la foto l’ho scattata in un bar, davanti al mio primo caffè in Nuova Zelanda, ad Auckland (lontano 2017). Riporta bene questa sensazione di fortissima libertà che la città mi ha regalato. L’ho scelta per associazioni varie e veloci di pensiero, perché ho l’impressione che, come (quasi) sempre succede con le cose da lasciare andare, la questione sia la nostra libertà dal digitale più che la nostra memoria digitale.
La nascita e la morte sono i due momenti che rendono “possibile” l’esistenza dell’individuo. Dalle parole legate ai riturali e alle tradizioni che accompagnano il nascere e il morire, possiamo comprendere quanto l’individuo era legato nella tradizione rurale alla comunità. Ne era infatti parte integrante, nella gioia e nel dolore.
Parole di memoria, la vita e la morte, le tradizioni a Coreno Ausonio
Un po’ di comunità nasceva e moriva con ciascuno dei suoi membri, eppure attraverso la solidarietà e il mutuo aiuto si compiva in qualche modo un piccolo, profondo miracolo di rinascita e resilienza. Ogni volta che si nasceva, ogni volta che si moriva.
Parole di memoria. Febbraio 2023 , Località: Curthi Coreno Ausonio (FR) [riprese Sergio Monetta; starring Tonino aka mio padre, con la partecipazione di Antonio Parente]
Qui il racconto delle tradizioni legate alla nascita e alla morte a Coreno Ausonio, il nostro piccolo paese in provincia di Frosinone, nella parole di memoria di Antonio (Tonino) Buongiovanni, mio padre, classe 1944.
“Parole di memoria è un format che ho ideato e realizzato perché credo che le parole parlino di noi e che il nostro dialetto ci restituisca le radici e un po’ di ciò che siamo”. Chiara B.
Parole di memoria, la rubrichetta sul dialetto e le tradizioni
Parole di memoria è la rubrichetta dedicata alle camminate in natura, con mio padre, e alle espressioni del nostro dialetto che incontriamo.
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Manteniamo viva l’identità del nostro territorio, attraverso il suo dialetto.
Camminare nella natura attraverso le stagioni è un esercizio di memoria. Spesso lo faccio con mio padre e nel camminare incontriamo parole del nostro dialetto. Pezzi di storia, pezzi di memoria, pezzi di noi.
Qui le parole di novembre, ritrovate camminando nella campagna di Coreno Ausonio (FR).
Parole di memoria. Novembre , Località: Bareoglie, Coreno Ausonio (FR) [riprese Sergio Monetta; starring il signor Tonino aka mio padre]
Cosa è Parole di memoria
Attraverso le parole del nostro dialetto recuperiamo ogni mese ricordi e manteniamo viva l’identità del nostro territorio, che è anche la nostra.
Partiamo a novembre, da Coreno Ausonio (FR), il “mio posto”. Scopriamo le parole di questo mese e la storia che raccontano, nel loro piccolo. Ci aiuta mio padre, il “signor Tonino” come (secondo me) felicemente ribattezzato dalla mia amica ig @ladydiprovincia. Le parole di novembre che trovate nel video : – chiàtema – scocciacannàte – ventrìscu + un modo di dire sul tempo incerto.
Parole di memoria è una rubrica mensile che serve in primis a noi, per riconoscere le radici e non perderle. Speriamo piaccia anche a voi.
PS: di Coreno Ausonio sentirete ancora molto parlare, intanto qui un po’ di riferimenti geografici, come ben sintetizzati da qualche compaesano volenteroso su Wikipedia.
“Coreno Ausonio si trova a 318 m s.l.m., su un altipiano posto sul fianco sud-ovest del Monte Maio (m 940), facente parte della Catena dei Monti Aurunci. L’abitato non dispone di un unico centro storico, ma è diviso nei suoi caratteristici antichi rioni, costruiti di solito intorno a un solo casale originario che s’ingrandiva, stanza dopo stanza, per via dell’incremento demografico delle famiglie, che prendevano i nomi degli edificatori primordiali.
Il territorio comunale presenta le caratteristiche di un territorio montano che digrada a uno collinare, con un andamento da nord-est a sud-ovest. Le altre cime dei monti Aurunci, presenti nel territorio, sono il monte Rinchiuso (778 m), il monte Feuci (830 m) e il monte Reanni (554)” (…)
******* Se interessati al tema della memoria, consiglio: