Vorrei che … “sosemeglie”

Buon Natale 2023

Mia nonna, nei suoi ultimi giorni, a letto, alternava momenti di lamento profondo per i dolori, a sonno comatoso, a racconti di ricordi ispiratissimi.

I ricordi che mia nonna raccontava riguardavano una vita di 96 anni e qualche mese, iniziata negli anni ’20 del secolo scorso, in un piccolo paese della provincia di Frosinone, il mio, in una famiglia composta da un padre medico “condotto” (come sempre sentivo dire da lei), una mamma dal carattere di una “battagliera” (la mia longeva bisnonna di oltre 20 anni più giovane del marito) e già due sorelle e un fratello ad aspettarla, mentre un altro fratello sarebbe arrivato due anni dopo di lei.

Tutti i fratelli sono sempre stati un elemento centrale nei racconti di mia nonna, rimasta orfana di padre all’età di 4 anni. “Fratone” il suo fratello maggiore, medico poi emigrato negli Stati Uniti e il suo fratello più piccolo, amatissimo, morto prematuramente. Ma ho sempre pensato che i super -poteri di mia nonna fossero le sue sorelle maggiori, “le sorelle” come le chiamava, diversissime da lei, e in particolare una delle due, “la sorella” (mia nonna anche lei), con cui ha vissuto insieme tutta la vita, avendo sposato a loro volta due fratelli (motivo per cui io ho avuto quattro nonni materni di fatto e, al netto della difficoltà a spiegare l’albero genealogico, ho sempre considerato questo un gran bel regalo che la vita mi ha fatto).

Più o meno adolescente, mia nonna, sola tra le sorelle, è stata mandata a studiare a Perugia, in un collegio statale per orfani di medici, sezione femminile.
Del suo tempo a Perugia, mia nonna mi raccontava con estrema precisione di particolari, i nomi e l’aspetto delle sue amichette, le dinamiche in classe, le materie e gli argomenti che le davano ansia e i modi che trovavano per superarle, i loro giochi con niente, l’acqua ghiacciata che usavano per lavarsi la mattina, l’inventiva per far bastare beni di prima necessità che scarseggiavano anche nel collegio. Mi raccontava, senza mai dirlo (mia nonna non parlava direi mai di sentimenti né di emozioni) la solitudine di una bambina, in un posto freddo, severo e lontano dalle sua famiglia ma soprattutto dalle sue sorelle. Mi raccontava che a Natale e a Pasqua le ragazzine che abitavano più lontano, non tornavano a casa.

Quando stava per morire, un giorno in particolare mia nonna ha fatto una selezione di ricordi, mi ha raccontato solo le cose belle della sua vita, e quasi tutte erano legate all’infanzia . E avevo l’impressione che non le stava raccontando a me, le stava “vedendo” e toccando, incontrando di nuovo. Lo posso dire dalla luce dei suoi occhi e dalle lacrime di gratitudine che ho visto scendere sulle sue guance, rimaste sempre tondette come quelle di una bambina.

In particolare, quando mi raccontava del Natale, nel collegio di Perugia con le poche altre bambine che come lei non tornavano a casa. All’improvviso ha spalancato gli occhi e ha esclamato, con quella sua giustapposizione, tipica di italiano e dialetto: “I sosemeglie! Quando arrivavano i sosemeglie!“, come se fosse il giorno più bello della sua vita. “Le sorelle mi mandavano il pacco co’ gli sosemeglie. La direttrice mi chiamava “Valente”, e io lo andavo a prendere. Era il pacco co’ gli sosemeglie di Natale! Le sorelle lo legavano con un fiocco, di spago. Io lo prendevo, lo portavo in camera, lo aprivo e davo subito uno a Maria (la sua amica del cuore, ndr), uno me lo mangiavo e poi li conservavo“.
Mentre parlava, muoveva le mani per toccare il pacco, per sciogliere il fiocco, e per conservare il primo sosemeglio sul cuore.

Io un amore così invisibile e così profondo, nel tempo e nello spazio dei mondi, non so se l’ho mai rivisto.
Ma questo, di certo, è l’augurio che vorrei fare per Natale.

Questa gratitudine e questa forza di navigare i secoli, che viene dalla capacità di vedere “oltre” il visibile.
Oltre un pacco di sosemeglie, legato da un fiocco di spago, tutto l’Amore che c’è.

mia nonna [Coreno Ausonio (FR), 1926 – 2021]

Tra le cose più incredibili a cui ho assistito fin qui, citerei gli ultimi giorni di vita di mia nonna. Ho visto la grazia di chi sta per lasciare questa vita per andare non so dove, e ho visto gli occhi spalancati e illuminati, di chi (ri)vede davanti quello che è stato indietro. Ci sono sguardi che vedono quello che ancora non è perché già lo hanno visto, e ho l’impressione che questo miracolo sia l’esperienza dell’amore su questa terra.

buon Natale 2023

ChiaraB.

#paroledimemoria gli sosemeglie“: biscotti natalizi della tradizione corenese.
Sulla ricetta di questi biscotti, abbiamo bisogno di aiuto. So che sono biscotti duri, fatti con miele, noci e a volte cioccolato. Grazie a chi ci aiuterà a essere più precisi!

Cosa sono le #paroledimemoria e tutte quelle incontrate fin qi le trovi nella categoria “Parole di memoria

Parole di memoria, direzione futuro.

Parole di memoria

Riflessioni sul ruolo del dialetto per identità in transizione*.

Transizioni e identità

Viviamo un tempo di transizioni, siano esse processi naturali e culturali “de facto” o “programmi” politicamente disegnati e finanziati.

Pensiamo agli stravolgimenti geologici, per cui si parla della nostra come dell’era dell’Antropocene, in cui l’essere umano con le sue attività è arrivato a incidere sul livello territoriale, strutturale e climatico. Pensiamo alla transizione a cui il Covid e post-Covid ci ha condotti, e pensiamo al terremoto geo-politico ed energetico che la conclamata emergenza climatica sta sollecitando da anni e di cui la guerra, che si consuma su suolo ucraino, ha accelerato gli impatti, ormai in atterraggio violento sulle economie reali dei nostri territori. Pensiamo infine alle grandi trasizioni europee, cd transizioni gemelle, verde e digitale, la cui piena realizzazione, nella visione di Bruxelles, è prerogativa di futuro per lo stessso progetto di Unione europea. Dare “piena realizzazione” a tale transizione implica renderla inclusiva e giusta, preservando dallo scotto del cambiamento sistemico i territori meno preparati al grande salto della digitalizzazione e della neutralità climatica su ampia scala, ovvero ad azzerare l’impatto ambientale da qui al 2050 attraverso la trasformazione di sistemi produttivi, filiere di distribuzione e consumo, stili di vita. Come cambia l’uomo in questo monumentale transitare? Come cambia il sentire la comunità come “propria” e se stesso come parte di una comunità? Che confini ha la comunità dell’uomo delle transizioni? E dove àncora la sua identità? Quali parole la descrivono, la evocano, permettono di riconoscersi ancora simile ad altri, all’interno di un perimetro geografico-culturale? Che valenza ha il territorio nell’accompagnare il singolo e la comunità nella “dovuta” transizione, se è vero che la trasformazione dei contesti, prima che da risorse pubbliche o investimenti privati, passa dalle aspirazioni degli abitanti e dal loro ruolo attivo e in una qualche misura imprenditivo? (Venturi, Zandonai 2019) Domande enormi, a cui tante analisi e punti di vista arrivano a proporre “pezzi”, si spera integrati, di prospettiva. La nostra prospettiva parte da un territorio del basso Lazio e dal suo dialetto, con l’inizativa in erba “Parole di memoria”. Un progretto piccolo, familiare quasi, con un respiro che aspira alla profondità delle radici di cui si nutre.

Parole di memoria, recuperare nel dialetto tracce di identità

“Parole di memoria” nasce da una domanda in parte controintuitiva in tempo di transizione. Si prefigge infatti di usare le parole del dialetto e il loro ancoraggio fisico, quasi il loro manifestarsi visivamente nei luoghi reali del territorio, per contribuire a spostare la riflessione dal più urgente “dove stiamo andando”, al più lento “da dove veniamo” ovvero “quale antropologia stiamo lasciando dietro di noi”. La consapevolezza della memoria ci regala la libertà di scegliere cosa portare verso il nuovo mondo. Una transizione libera ha in sé un esercizio di tradizione, nel senso etimologico del termine, del “trasmettere”, per poter conservare ciò a cui si riconosce un valore, attraverso un esercizio di memoria e di narrazione che usi la lingua che più di altre ha dato forma all’identità territoriale e comunitaria nel tempo e nello spazio: il dialetto. In questo senso abbiamo scelto di interrogare le parole della piccola storia del nostro paese: le Parole di memoria di Coreno Ausonio (FR). “Passeggiare e pensare in natura attraverso le stagioni. Spesso lo faccio in compagnia di mio padre e nel camminare seminiamo memoria, per chi vorrà raccoglierla. Siamo a Coreno Ausonio, accovacciati tra i monti Aurunci, affacciati sul golfo di Gaeta, a 318 metri sul livello del mare, in provincia di Frosinone. Qui è passata la Storia attraverso i secoli, ha fatto sosta la Seconda Guerra Mondiale, lasciando il tracciato della Linea Gustav con il suo sangue, il suo dolore e le storie indelebili. Ogni volta che camminiamo incontriamo delle parole, pezzetti di storie che ricomponiamo, pezzetti di noi”.

“Parole di memoria” sono dei video in cui raccogliamo, dalla memoria di mio padre (classe 1944), le parole in dialetto, cerchiamo di spiegarne il significato e raccontiamo le tradizioni e le storie della comunità corenese e della civiltà rurale che a quelle parole sono collegate. Le Parole di memoria vengono fuori quasi “spontaneamente” mentre camminiamo, un po’ come la stramma, come gliu ventriscu (lentisco) e come le scocciacannate (ciclamini) ai bordi della strada. Sono le parole in dialetto che “descrivono le cose” e al tempo stesso “raccontano la storia” della nostra comunità e dei luoghi in cui questa storia ha preso forma. Riguardano gli eventi belli, la vita di tutti i giorni e le tragedie familiari e universali di cui siamo stati testimoni, anche attraverso i nostri antenati. Attraverso le Parole di memoria recuperiamo non solo la memoria storica e culturale del paese ma anche antropologica, ovvero lasciamo che emerga “l’umanità” che nella comunità si alimentava in modo quasi viscerale, come a definire il dna dei corenesi. Ci piacerebbe che fosse un racconto non solo evocativo ma, nel suo piccolo, generativo di piccoli semi di memoria ma anche di futuro: di quello che siamo stati, che in parte siamo ancora e che possiamo scegliere di tornare a essere, pur nelle forme e nei ritmi della nostra contemporaneità.

Il dialetto di Coreno Ausonio, chiedere ai luoghi “chi sémo”?

“Parole di memoria” raccoglie schegge di dialetto corenese, ritrovate camminando nella campagna e tra le strade del nostro paese che “non è” provincia di Caserta, “non è” Ciociaria, “non è” provincia di mare (Latina), ma confina con le tre aree e nel suo dialetto ne riceve gli influssi, sia in termini morfosintattici che lessicali e fonetici, nonché di codici extralinguistici. Coreno Ausonio ha infatti una forte identità dialettale, legata a un certo attaccamento a tradizioni e cultura di appartenenza, queste ultime simili eppure diverse e specifiche rispetto ai paesi confinanti. Questo fa sì che il “corenese” sia percepito un po’ come una seconda lingua, secondo un modello diglottico. Interessante notare come, sia a livello familiare che comunitario, si stia sviluppando una sorta di semi – dialettofonia di ritorno, collegata a un rinnovato interesse culturale per tutto ciò che è più puramente “corenese”. Interessante anche notare come lo status di prestigio palese e celato legato al dialetto si sia nel tempo di una generazione quasi sovvertito. Se nell’infanzia parlare in dialetto era in qualche modo censurato e collegato più o meno implicitamente a variazioni diastratiche, nella situazione attuale c’è un vero e proprio “ritorno a casa” nell’uso del dialetto, percepito dall’intera comunità sia a livello generazionale che sociale.

Nel nostro piccolo, con i video “Parole di memoria” cerchiamo di mantenere viva la memoria per saper riconoscere le nostre radici e per non perderle. Attraverso le parole del dialetto recuperiamo i ricordi e l’identità del territorio, che è anche la nostra. Mi piace richiamare il fatto che i greci avessero due termini per il ricordo: mneme e anamnesis, il primo per indicare il ricordo come ciò che appare, il secondo come oggetto di una ricerca, di una reminiscenza. Ma, in fondo, il senso del camminare nel ricordo è sempre proprio del soggetto, di chi cercando il “cosa”, attraverso il “come”, incontra il “chi”, ovvero “se stesso”, sia esso un “sé” individuale o collettivo: dal ricordo alla memoria riflessiva attraverso la reminiscenza. (Ricouer 2003)

L’uomo transitante e il patrimonio linguistico di una comunità

La tesi che si vuole suggerire nasce da un’osservazione sorta nel camminare tra le strade del territorio, prendendo atto di come il territorio sia un’entità “parlante”. Che lingua parla il territorio? Dove sono fisicamente collocate e reperibili le parole del territorio? Che cosa racconta attraverso le sue parole? Cosa tramanda? Cosa dovremmo saper ascoltare, per muovere con identità libera attraverso le transizioni del nostro tempo, di cui siamo soggetti attivi e critici, ma a cui rischiamo parzialmente di andar soggetti? La lingua, come la sociolinguistica ci insegna, non ha sola funzione pragmatica, ma ha anche l’aspirazione di conferire identità sociale e riconoscimento comunitario al parlante. Cosi le sue varietà ci permettono di comunicare chi siamo e di rendere le nostre scelte linguistiche pieno strumento di consapevolezza ed espressione del sé. (Santipolo 2022) Riacquistare conoscenza del dialetto e competenza comunicativa sembra essere un atto libero di resistenza e immaginazione culturale per i nostri territori. Linguisticamente parlando, un territorio dovrebbe poter conservare memoria di sé attraverso la lingua che ne racconta non solo l’evoluzione culturale, ma anche le radici antropologiche. La pregnanza del dialetto è nel descrivere e nel definire cose che, se anche non esistono nel presente, informano il nostro codice genetico socio-culturale e identitario. In questo le Parole di memoria hanno la capacità di rievocare e riattivare esperienze di riconoscimento e immaginazione, per il presente e per il futuro.

Riferimenti bibliografici

RICOEUR P. (2003), La memoria, la storia, l’oblio Raffaello Cortina Editore, Milano.
SANTIPOLO M. (2022), Educazione e politica linguistica. Teoria e pratica, Bulzoni Editore, Roma.
VENTURI P., ZANDONAI F. (2019) DOVE. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Edizioni Egea, Milano.

  • articolo pubblicato in Saperi Territorializzati, giugno 2023

Quando si nasceva, quando si moriva. Gliu cònsoglio e altre Parole di memoria a Coreno Ausonio (FR)

La nascita e la morte sono i due momenti che rendono “possibile” l’esistenza dell’individuo. Dalle parole legate ai riturali e alle tradizioni che accompagnano il nascere e il morire, possiamo comprendere quanto l’individuo era legato nella tradizione rurale alla comunità. Ne era infatti parte integrante, nella gioia e nel dolore.

Parole di memoria, la vita e la morte, le tradizioni a Coreno Ausonio

Un po’ di comunità nasceva e moriva con ciascuno dei suoi membri, eppure attraverso la solidarietà e il mutuo aiuto si compiva in qualche modo un piccolo, profondo miracolo di rinascita e resilienza. Ogni volta che si nasceva, ogni volta che si moriva.

Parole di memoria. Febbraio 2023 , Località: Curthi Coreno Ausonio (FR)
[riprese Sergio Monetta; starring Tonino aka mio padre, con la partecipazione di Antonio Parente]

Qui il racconto delle tradizioni legate alla nascita e alla morte a Coreno Ausonio, il nostro piccolo paese in provincia di Frosinone, nella parole di memoria di Antonio (Tonino) Buongiovanni, mio padre, classe 1944.

Parole di memoria è un format che ho ideato e realizzato perché credo che le parole parlino di noi e che il nostro dialetto ci restituisca le radici e un po’ di ciò che siamo”.
Chiara B.

Parole di memoria, la rubrichetta sul dialetto e le tradizioni

Guarda i video “Parole di memoria”

Parole di memoria, piccola rubrica. Nel dialetto l’identità del territorio

Tutti gli articoli “Parole di memoria”

Parole di memoria è la rubrichetta dedicata alle camminate in natura, con mio padre, e alle espressioni del nostro dialetto che incontriamo.

Per non perdere le prossime iscriviti “Caffè con le rose. Appunti di belle cose” (aspirante newsletter mensile, trovi il modulo per inserire la tua email in homepage) e per comunicare con me:

scrivimi a caffeconrose@gmail.com (Chiara)

“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel chiama “Il caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel. Un libro chiama l’altro

Guadalupe Nettel Tiffany McDaniel

#unlibrochiamalaltro sinapsi letterarie ***

“Il caos da cui veniamo” / “Il corpo in cui sono nata” .

“Da cui” / “in cui”: c’è come un azzeramento di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzionalità in avanti ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e (forse) parzialmente ci sopravviveranno attraverso altri.

Il caos e il corpo, fenomenologia delle radici

A fine ferie mi capita di passare delle giornate nella “mia” casa di famiglia: dove io sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori, dove sono vissuti i miei nonni che fino all’anno scorso erano presenti, tramandati attraverso il corpo, i ricordi e i molti decenni di vita di mia nonna.
In questa casa, in questi giorni, ci siamo io e mio fratello.

Ma le radici hanno una strana fenomenologia. Quando trovano il vuoto iniziano ad emergere, più forti, prepotenti, inevitabili.
Per questo, questi giorni di assenza, sono pieni di presenza. Ed è strano come alla fine dei cortocircuiti di memoria che mi attraversano, mentre salgo le scale, mentre cerco nei cassetti, mentre guardo come da quarantadue anni a questa parte fuori dalla finestra, verso la piazza del paese, io mi incontri a ritroso con me stessa.

Immagino che, per vie e vite personali, questo sia il percorso che Tiffany McDaniel abbia ripercorso ed esplorato, scandagliato con enorme onestà e amore nel suo bellissimo libro “Il caos da cui veniamo“, ispirato alla storia di sua madre. Letto con passione già qualche tempo, mi è stato richiamato alla mente dalla più recente lettura de “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel (più famosa per il suo “La figlia unica)

La semantica di entrambi i titoli è molto potente: il primo libro mi ha attratto tantissimo proprio a partire dal titolo, il secondo è stato in realtà un regalo. Questo accendere le preposizioni di moto da/in luogo nel viaggio della vita è una scelta di grande consapevolezza e coraggio.
“Da dove” / “in cui”. C’è come un azzeramento percepito di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzione in avanti: ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo, di qualcosa che è successo lì e non si sposterà altrove. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e forse parzialmente ci sopravviveranno in altri.

L’uso appropriato e consapevole di queste preposizioni nella grammatica dell’esistenza è una fondamentale conquista, che non può che esserci regalata da esperienza, coraggio e visione, in relazione assolutamente personale e non matematica con la nostra età che avanza. (E non sono affatto sicura che sia poi una conquista di tutti/e)
Il momento della vita in cui ne prendiamo consapevolezza è un momento fondante, di grande liberazione. Il momento in cui diamo voce alla nostra scoperta, puntuale e al tempo stesso sequenziale e rinnovata nel tempo, e scegliamo di raccontare, come hanno scelto di fare le due scrittrici, è un momento di grande poesia.

Per questo “Il caos da cui veniamo” e “Il corpo in cui sono nata” sono due libri di prosa, due memoir se vogliamo, intrisi di questa poesia. Di questa forza propria della “poiesis” che ci forgia, nella genetica e dunque nei nostri tratti somatici come nella nostra cifra esistenziale e nella sintesi travagliata delle cose che si chiama “identità”.
Le radici sorreggono chi siamo e gli danno forma, oltre la forma.
Questa sono io, perché vengo “da” e sono nata “in”. Questa qui sono io.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel chiama “Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel

“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel la scrittura di una esploratrice cosmica


“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel, edizione Atlantide è diventato uno dei miei libri del cuore. Confesso di averlo scelto a caldo per il titolo, non avevo mai letto nulla di questa scrittrice (la bella edizione Atlantide ha probabilmente avuto un ruolo nella scelta tra gli scaffali della Libreria ELI, tra le mie preferite a Roma).
Una poesia, una purezza, un’eplorazione profondissima e avvincente.
Un libro tragico che finisce per decantare la vita. De-cantare, osservarla quando sembra stagnare, putrefarsi e lasciarsi tuttavia incantare dalla scintilla originaria. Dedicato alla figura della madre dell’autrice, “l’Indianina”, che ne è anche la protagonista (Bitty), il libro è illuminato dalla smisurate figure di un padre e una madre in un dualismo delle origini che non può che accompagnarci nella ricerca, a ritroso, di chi siamo. Nella ricerca, che non culminerà nella comprensione ma nell’amore, di quel caos originario che ci ha partorito come stelle impazzite di luce e tragedia.

“Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto di irrequietezza. In fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio.
Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Si, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo”.

E non importa in questo libro quanto sia fantastico e quanto sia reale. C’è dentro verità.

“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel ovvero “la bellezza fatta donna”

Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel, edizione La Nuova Frontiera mi è stato regalato con una dedica che recitava: Alla bellezza fatta donna”.
La dedica mi ha fatto sorridere, perché avevo intuito una misconcezione di base da parte del “donatore di libri” (che mantengo per sua richiesta anonimo) proprio a partire dal titolo.

A fine lettura, mi ritrovo sorpresa da come il senso di questa dedica possa sposare il senso del libro, in un certo senso (e mi scuso per il trasbordare di “senso” in cui a quanto pare sono andata a cadere).
Il libro è una sorta di memoir che parte dall’infanzia, segnata dagli irriverenti anni ’70 e da un importante difetto di vista, e attraversa con salti avanti e indietro nel tempo l’esistenza della scrittrice.
La persona che nasce attraverso questo libro è bella, perché è una persona che diventa finalmente un tutt’uno con il suo corpo. Quel preciso corpo è suo da sempre, eppure la scrittrice ne riesce a prendere “pieno possesso” solo attraverso ciò che altri hanno inciso proprio lì, nel suo corpo fisico, familiare, sociale. Al centro il rapporto con la madre, la nonna, il padre poco presente ma determinante (come sempre) e due continenti, in un walzer di vita e di morte, reale e apparente.

C’è un apice, un punto di non ritorno, che è quello in cui

“finalmente, dopo un lungo periplo, ci decidiamo ad abitare il corpo in cui nasciamo, con tutte le sue particolarità e a renderci conto che in fin dei conti è l’unica cosa che ci appartiene e ci vincola in modo tangibile al mondo, e insieme ci permette di distinguercene”.


(nel testo in prima persona, ndr)

Il viaggio per arrivare fin qui, in un continuo rimbalzare, slabbrare, richiudersi e rispalancarsi di confini fisici e invisibili è quello che fa di noi “bellezza”. La bellezza fatta persona. Visibile, tangibile, corporea e mai perfettamente afferrabile nel momento presente.
Non è un viaggio semplice, quello che ci porta a sentirci un tutt’uno con il nostro corpo, fino a regalarci la libertà della consapevolezza che il “corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo“, eppure in quel corpo siamo nati proprio noi. E solo noi.

#unlibrochiamalatro
sinapsi letterarie
è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.

Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.

Rialzare “Macère”, architetture e memorie rurali a Coreno Ausonio

Se chiudo gli occhi e penso al mio paese, Coreno Ausonio, una delle primissime cose che subito vedo sono le sue innumerevoli “macère“.

Muri a secco in pietra che mantengono le vallocchie (vallòtthie) – così come chiamiamo qui i terrazzamenti di terreno agricolo – una sull’altra in armonia scalare.

Ho sempre ammirato gli incastri perfetti e la meraviglia della loro resistenza nel tempo.
A volte franano. Proprio come noi, che da piccoli le abbiamo usate e consumate per arrampicarci e arrivare nei prati dei nostri pic-nic più belli, dalle loro pietre a incastro perfetto sorretti e delimitati.

Come noi, discendenti di quelli che le hanno costruite secoli fa, e come tutti le macère sono sensibili. Agli agenti atmosferici, all’incuria, al tempo che sfida i loro incastri,
Come noi in questo tempo chiedono di essere rialzate, perché baluardo della nostra identità, della civiltà contadina che ci ha accompagnati a essere quelli che siamo e perché frutto di un grande patto di comunità, fondato sulla terra e sulla cura.

Parole di memoria scolpite nella pietra

Le macère franate si chiamano vàrola, l’arte di rialzare risiede nell’aisa’ le vàrola che al singola diventa gliu varu.
Per raggiungere la vallocchia (appezzamento di terreno sorretto e delimitato dalla macera) si salgono gli rarigli, opera fantastica di architettura rurale, impressa nella mie memorie di infanzia.

Ci vuole una comunità per rialzare macère

Ci vuole una comunità per rialzare le macère, come per rialzare gli animi e ridare struttura e armonia a un tempo che sembra accasciarsi su stesso e arroccarsi sulle singole individualità scheggiate.

Le abbiamo incontrate queste “macère” ferite, nel corso delle nostre consuete camminate nella natura, sotto i monti, davanti al mare. A Coreno Ausonio, in provincia di Frosinone.
E con loro le parole di memoria che trasudano e ci consegnano.

Sono parole di cura, di bellezza e di perizia.
Sono come sempre parte di noi.
Le ho raccolte da mio padre, e ne riporto qualcuna a memoria collettiva e futura.

Buon cammino nella memoria attraverso le sue parole… e buona ricostruzione a noi tutti.

Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, ogni suggestione evocata o correzione della trascrizione è benvenuta!
Se volete seguirci sul canale video Youtube:
COFFEE N’ROSES Youtube
Se condividete lasciate una traccia con #caffeconrose #paroledimemoria

Per camminare tra le Parole di memoria, date un’occhiata qui.

Parole di memoria è la rubrichetta dedicata alle camminate in natura, con mio padre, e alle espressioni del nostro dialetto che incontriamo.

Per non perdere le prossime e per comunicare con me

scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara)

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé. Un libro chiama l’altro

Harper Lee Jean Teulé - Un libro chiama l'altro

#unlibrochiamalaltro sinapsi letterarie ***

Cos’è la folla oltre la somma delle individualità? Cosa è il pensiero quando perde l’originalità e la responsabilità del singolo? Cosa ne consegue è, forse, sempre tragedia.

Attycus Finch, eroe tragico nel romanzo “Il buio oltre la siepe” dell’ineguagliabile Harper Lee (edizioni Feltrinelli) mi richiama alla mente Alain de Monéys e la sua storia (vera) raccontata in “Vita breve di un giovane gentiluomo da Jean Teulé (edizioni Neri Pozza)

Due libri da leggere, al tempo in cui abitiamo i social media. O meglio, in ogni tempo abitato da esseri umani.

A giugno è ricorso il quarantesimo anniversario del premio Pulitzer per la narrativa a Harper Lee con il “Il buio oltre la siepe”.
Un libro necessario , come definito da Barack Obama, che ben prima di essere il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America è stato un community organizer a Chicago, lavorando sull’emancipazione e la presa di coscienza dei propri diritti da parte della comunità afro-americana.

Vero, un libro bello, semplice nella sua bellezza come sanno essere solo i libri capaci di colpire, affondare e far tornare a galla l’umanità profonda e complessa che ci abita e ci muove e ci collega.

Da sempre indicato come un libro da leggere contro ogni forma di discriminazione e razzismo, “Il buio oltre la siepe” mi sembra un universale, godibilissimo, sulla natura umana, sulle divisioni e gli steccati che per nostra natura costruiamo e che, per dinamiche sociali, ingigantiamo fino a istituzionalizzarli scientemente o ad assimilarli inconsciamente arrivando ad abdicare scelleratamente alla nostra capacità critica e morale.

“Il buio oltre la siepe” e le lanterne umane

Esistono delle lanterne umane. Gli Atticus Fynch che incontriamo o manchiamo nelle nostre vite, che sono vigili e accese nella nostra società e che permettono che la loro lucetta arrivi anche a noi per propagazione. E le cinghie di trasmissione luminosa sono spesso le più giovani generazioni. Quello che ascoltano, quello che vedono, quello che non capiscono e le interpretazioni che vengono loro proposte dei fatti sono, in gran parte, ciò che in una società fa la differenza per il presente e per il futuro.

La piccola Scout Fynch è colei che, insieme al fratello Jem, nel romanzo di Harper Lee raccoglie la fiammella di una lanterna “gigante” che è il suo papà Atticus Finch. Avvocato. Rispettatissimo avvocato a Maycomb, città “vecchia e stanca” nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America, che si ritrova l’intera comunità contro per aver accettato di assumere la difesa di Tom Robinson, giovane dalla pelle nera accusato di stupro da una giovane dalla pelle bianca. Una figura che mi fa venir voglia retroattiva di fare l’avvocato. Per la sua interpretazione della professione e la sua pratica. Leggere per credere.

Il libro è superlativo da numerosi punti di vista e profondamente emozionante, ma è della sinapsi inaspettata che mi ha attivato che vorrei parlare. Partiamo della scampata aggressione ad Attycus da parte di un manipolo di cittadini di Maycomb, a cui i figli si trovano ad assistere.

In particolare, la figlia Scout “sventa” l’aggressione riconoscendo tra gli aggressori il signor Cunningham, il papà di un suo compagno di scuola. Candidamente identificandosi come “la compagna di scuola e colazioni di suo figlio Walter” getta in crisi d’identità l’aggressore. (Sono il papà di Walter, amico di Scout, figlia di Attycus e sono qui l’aggressore, ciecamente arrabbiato con Attycus!).
Quando, il giorno seguente, la bambina stupita chiede al padre come sia possibile che tra gli assalitori ci fosse l’amico di famiglia ed estimatore di Attycus, il signor Cunningham, la risposta di Attycus è un trattato di antropologia e misericordia, che forse è l’unico binomio che ci salverà dal baratro.

Scout “Credevo che il signor Cunningham fosse un nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era”.

Attycus “E lo è ancora!”
S “Però stanotte voleva… farti del male”

A “Il signor C. È un brav’uomo, ma come tutti noi ha le sue debolezze”.
Jem (fratello di S.) “Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione stanotte ti avrebbe persino ucciso”.

A “Avrebbe potuto farmi qualcosa, ma figliuolo quando sarai più grande capirai un po’ meglio la gente. Una folla è fatta di individui, quali che siano. Stanotte C. faceva parte di una folla ma era pur sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo… anche se ciò non li scusa, ti pare?”.

J “Direi di no”

A “E infatti c’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli tornare in sé!” “Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini. Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che W. C. si mettesse nei miei panni per un attimo, e ciò è bastato”.

La risposta di Attycus racchiude la chiave antica dei nostri misteri di grandezza e redenzione, non importa in quale pozzo di bassezza siamo andati a cadere, nelle azioni, nelle opere e nelle omissioni. La chiave è l’empatia e soprattutto ciò che ne consegue. Chiave di volta, in questi tempi di profonda violenza verbale a cui non raramente fa seguito violenza fisica e di cui la sfera social sembra ergersi ad arena senza confini. Arena in cui siamo immersi che promette interconnessioni e, bolla su bolla, finisce talvolta per edificare muri.

Leggendo questo passaggio, il richiamo a ciò che succede in quelle dinamiche che fanno dei social una sorta di violenta cloaca sociale è stato pressoché immediato, insieme al richiamo di un libro precedentemente letto, meno celebre de “il Buio oltre la siepe, ma comunque un piccolo capolavoro (nel suo genere). Se fossi un’insegnante proprio in questi anni ne farei un testo di lettura obbligata.

“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé

“Vita breve di un giovane gentiluomo”
Mangez-le si vous voulez

“Il buio oltre la siepe” mi ha chiamato alla mente “Vita breve di un giovane gentiluomo” di J. Teulé, edito in Italia nel 2011 da Neri Pozza, dal titolo originale molto più appropriato (come quasi sempre succede con i titoli originali) “Mangez- le si vous voulez”, ovvero “Mangiatelo se volete”. Crudo quanto la storia reale che racconta.

La giornata del 16 agosto 1870 per Alain de Monnéys è davvero una giornata campale. Esce di casa da stimato cittadino e benvoluto vicesindaco di Bessauc nel Perigord francese, e non vi farà mai ritorno perché letteralmente mangiato dalla folla dei suoi concittadini.
Scrittura superba in una cronaca che sembra sempre sull’orlo di provocare un sorriso, se non fosse che esplode a un certo punto in un vero delirio tragico.
Alla base del rivolgimento del sentimento popolare verso il giovane Alain, una voce diffusasi tra la folla (mi verrebbe da dire in rete, ma ops siamo nel 1870) di una sua defezione a favore dell’esercito prussiano (contro cui si era arruolato) e di atti di conclamata infedeltà all’imperatore. Voci. Non verificate. Che il lettore sa essere false. Ma impotente, come il protagonista, assiste al montare della rabbia cieca (ma è poi rabbia la parola giusta?) della folla e alla sua azione violenta e omicida fino a sfociare in episodi di vero e proprio cannibalismo.

Mangez-le si vous volez” è l’invito provocatorio del semi-attonito sindaco, che viene preso alla lettera dai suoi concittadini in un vortice di inspiegabile violenza e follia omicida. Talmente inspiegabile che durante il processo, che vedrà pochi tra i facinorosi sul banco deli imputati (usiamo facinorosi solo convenzionalmente perché si fa fatica a trovare parole adatte al caso), uno tra loro dirà forse l’unica verità plausibile “Non so cosa mi sia preso”.

Su questo non sapere, e su quello che ci prende quando ci alieniamo da noi stessi – e dagli altri che poi è solo l’altra faccia della medaglia del fenomeno – si giocano le sorti dei singoli che ci passano accanto e del mondo intero, sui social e nelle nostre realissime giornate.

Pensiamoci. E se può aiutare leggiamo e facciamo leggere questi due libri, necessariamente sconvolgenti.

Non riuscirai mai a capire le persone…

PS: “Il buio oltre la siepe” mi è stato regalato da una tra le persone che più stimo, mia amica e al tempo collega. Nella sua dedica il senso.

“…non riuscirai mai a capire le persone se non ti metterai nei loro panni e proverai a vedere le cose dal loro punto di vista…”

con grandissimo affetto

Maria

#unlibrochiamalatro
sinapsi letterarie
è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.

Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.

“L’acqua del lago non è mai dolce” chiama “Ricordi della mia inesistenza”. Un libro chiama l’altro

Copertina Caminiti Solint

#unlibrochiamalaltro sinapsi letterarie ***

Volevo scrivere de “L’acqua del lago (che) non è mai dolce” ma poi ho incontrato Rebecca Solnit e i suoi “Ricordi di inesistenza”

Quanti modi abbiamo di diventare noi stesse: tanti e probabilmente nessuno troppo facile.
Quanto conta il posto dove siamo, quello dove scegliamo di andare o di stare nel periodo della muta, che dura anni o decenni o forse tutta la vita.
Di certo c’è un tempo, un modo e un luogo in cui decidiamo, non chi voler essere ma a quale lato di noi dare un’opportunità, quale coltivare, quale far crescere per poi in un tempo futuro andare a raccogliere la restante parte, missione quest’ultima altrettanto avvincente.

C’è un tempo nella nostra vita in cui saremo integre, ma in quello che io chiamo il tempo della muta ci centriamo su una parte di noi stesse che noi eleggiamo a nostro centro, da cui la nostra evoluzione prenderà forza energia propulsiva per il resto della nostra vita (con i nostri inevitabili stop and go).
Una specie di centro karmico se volete, il nostro Io, quella particolare combinazione di neuroni, cellule ed emozioni che darà la direzione alla nostra evoluzione di donne. E ci sono posti in cui consapevoli ci dirigiamo e a volta stanziamo che assistono al travaglio, fino al parto di noi stesse. Perché qui parliamo di donne e di un “moto” a noi stesse. Alla nostra identità situata.

Essere una donna è una discriminante? Si lo è


Lo è stata per le generazioni precedenti alla nostra, e lo è oggi, su intensità e passaggi diversi, forse, o forse neanche troppo diversi. E’ giusto che lo sia, perché siamo diverse, il punto è capire in che modo. Se a modo nostro o no.

Cosa succede in questo tempo, in questo luogo, in questo moto è il centro di due storie che senza volere si sono sovrapposte nelle mie letture recenti ( e nelle mie sinapsi letterarie).

Una rossa Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, di Giulia Caminito (tra i candidati Premio Strega 2021, edito da Bompiani) e un’immensa Rebecca in “Ricordi della mia inesistenza” Rebecca Solnit (edizioni Ponte alle Grazie).

L'acqua del lago non è mai dolceRicordi della mia inesistenza

Gaia, e l’acqua del lago che non è mai dolce

In “L’acqua del lago non è mai dolce”, una bambina, poi adolescente, poi giovane adulta si muove tra Roma e la sua provincia, nello specifico Anguillara Sabazia e i borghi attorno al lago di Bracciano, alla ricerca sofferta e rabbiosa di sé. Interessante per me la vicinanza dei luoghi alla mia residenza attuale e l’impenetrabilità del personaggio, piuttosto monolitico e ostinato, da apparire quasi monodimensionale pur lasciando intuire spiragli di dolore e debolezza profondissima. Incapacità di leggersi e di tradursi, di offrirsi all’esterno, nelle amicizie, negli amori, seppur adolescenziali, nelle passioni, praticamente inesistenti. Un personaggio che mi piacerebbe interpretare teatralmente, per il non detto e per quanto si può di questa rossa intuire dalla sua apparente non relazione con gli elementi del contesto: dalla famiglia, disperata ma ostinata nella sua sopravvivenza a conduzione matriarcale, alle amiche del cuore, alleate strumentali alla sopravvivenza, agli amori costruiti e a quelli – suo malgrado – impossibili da reprimere, grimaldello della sua identità.

Rebecca, e i ricordi di inesistenza di tutte noi che poi abbiamo scelto di esistere

Rebecca Solnit racconta se stessa, negli anni dell’esplorazione di sé e della scoperta e della formazione di questo pensiero coraggioso, dissacrante e profondamente innovativo, che si dispiega e si forma nei ”Ricordi della mia inesistenza”.
Per me qui il sottotitolo è “Storia di una libertà”. Non nasciamo libere, ma lo diventiamo. Per alcuni è più difficile,. Per le donne il percorso verso la libertà personale ha più ostacoli, che si aggiungono a quelli sacrosanti che ciascuna persona, a prescindere dal genere ha.
Attraverso i suoi ricordi Rebecca Solnit ci racconta come è arrivata a fare il lavoro di giornalista, saggista, intellettuale, documentarista che fa e soprattutto come è arrivata a farlo nel modo che è suo, che le appartiene. Come è diventata la donna che è: viaggiatrice, pensatrice, ironica, acutissima, con le relazioni che ha scelto di avere e quelle che non ha voluto sedimentare.
Nel farlo ci racconta la San Francisco degli anni ’70 fino a quella degli anni ’90, vissuta in prima persona tra i centri culturali d’avanguardia e i movimenti per i diritti civili, lontano dal presidio della cultura più intrisa di occidente che nella Est Coast sembrava strizzare l’occhiolino all’Europa.
Nel raccontare il suo lavoro di ricerca sulle comunità artistiche degli anni ‘50 ci racconta pezzi di storia che spesso mancano alla narrativa sulla mitica West Coast, e portandoci nei suoi viaggi nel deserto del Nevada e o al Sud nel Mexico ci racconta una battaglia ambientalista attraverso uno sguardo pionieristico e genuinamente alternativo.

La sua storia è la lettura immersiva ed esperienziale di un contesto in fermento con gli occhi profondamente intelligenti di una donna, che diventa femminista per presa di coscienza.

Alcuni libri si mangiano

Questo è quello che io chiamo un libro da “mangiare”, perché è nutriente e fa bene. Da regalare alle persone in cerca di identità e soprattutto a chi sta rischiando di perderla nel conformismo o nello scoraggiamento di questi nostri giorni.

Non rimpiango (quasi) mai le mie letture, come le mie esperienze. Però non tutti i libri vanno nel mio scaffale dei “libri che amo”, ancor meno in quello dei necessari.

Rebecca Solnit* con i suoi “Ricordi della mia inesistenza” c’è, e ci resterà.

******

*Rebecca Solnit , per rendere l’idea, è quella del mansplaining, o meglio – come lei racconta – fu un lettore del suo celeberrimo saggio “Gli uomini mi spiegano cose” a coniare questo neologismo per identificare il fenomeno da lei individuato e descritto, quando ahimé ne eravamo già afflitte senza averne sufficienza coscienza. Il saggio è del 2008, il New York Times ha eletto “mansplaining” parola dell’anno nel 2010 e nel 2014 è il termine è entrato nel dizionario.

#unlibrochiamalatro
sinapsi letterarie
è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.

Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.

La stramma e i giochi antichi, a passeggio nel dialetto. D’inverno a Coreno Ausonio (FR)

Arrivederci, Inverno!

Abbiamo fatto molte passeggiate in questo inverno, nell’anno della pandemia. La natura ci ha salvati in tanti giorni e così la memoria, attraverso le parole del dialetto e le immagini di questa nostra piccola storia, rannicchiata tra i Monti Aurunci. Cosi la storia del nostro paese, Coreno Ausonio, ci torna e ritorna, a sorsi, davanti agli occhi. E nel cuore. Ci prepariamo a entrare nella primavera. E a tutto quello che rinascerà, sempre e nonostante tutto. Qui il video con le parole che abbiamo incontrato, nell’ultima passeggiata di inverno (2021).

La memoria ci insegna la resistenza e una forma atavica di resilienza.

Come la stramma, la prima parola che abbiamo incontrato in questa nostra passeggiata invernale. Un’erba infestante che ha saputo donare al territorio corenese, nel tempo, una risorsa economica importante, in una filiera micro-imprenditoriale sviluppata artigianalmente attorno alle fugni ovvero le funi, agli capisti – le funicelle poco lunghe usate per legare le fascine di legna o la stramma appena raccolta – fino agli strugli usati per comporre le rate, piani di appoggio per distendere ed essiccare cibarie varie, soprattutto uva e fichi.

Parole di memoria sparse nell’inverno

Come sempre quando camminiamo nella natura corenese, abbiamo incontrato innumerevoli cerque, le querce, svestite per la stagione e le loro simpatiche “palline” gli cucùri, in aggiunta alle preziosissime gliande, le ghiande.

Arrivederci, Inverno!

Con questo video salutiamo l’inverno, che abbiamo attraversato da dicembre a febbraio e ci prepariamo alla prossima passeggiata di primavera. A tutti buon tuffo nella memoria, negli odori, nelle atmosfere e in quella promessa di felicità semplice che solo i ricordi che la nostra terra emana ci sa dare.

Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, ogni suggestione evocata o correzione della trascrizione è benvenuta!

Se volete seguirci sul canale video Youtube:
COFFEE N’ROSES Youtube

Se condividete lasciate una traccia con #caffeconrose #paroledimemoria

Per comunicare scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara)
Ps: a breve avremo la nostra piccola newsletter, ma al momento intrattengo ancora ed esclusivamente corrispondenze “di penna” (via email) ;0)

Natale a Coreno Ausonio (FR) – Gliu Cocò, zia Cosa e altre tradizioni

Natale 2020 a Coreno Ausonio (FR). Passeggiando sulle nostre montagne “pe’ la via re Vallauria” abbiamo incontrato i ricordi delle nostre tradizioni natalizie.

Le parole hanno portato le immagini e la memoria ha preso a camminare insieme a noi al ritmo di una filastrocca che inizia così: “Oì zia Cosa scegnesce caccòsa...” (…).

La casella della Ripa, sotto il monte Maio: la memoria dei miei bisnonni

Ci siamo fermati alla casella della Ripa, per condividere e fissare le parole in immagini.
La Ripa, la casa in pietra nel video, era la casa di campagna dei mie bisnonni. Mia nonna mi racconta sempre delle sue estati qui, e della sosta d’emergenza per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi (che comunque arrivarono anche qui) prima di essere sfollati fuori dal territorio di Coreno (ma questa è un’altra Storia).

A riprendere Sergio Monetta, a ricordare mio padre Antonio (da sempre Tonino), ad ascoltare io e mio fratello Flavio.

L’orizzonte invernale, gli ulivi e le nostre pietre sempre al nostro fianco. Davanti a noi Gaeta che poggia nel Golfo come una balena ormai familiare. Il vento a tratti fortissimo.

Auguri di resistenza e resilienza nel 2021

Questo breve video parla di noi. E per tutti noi è un augurio di resistenza, resilienza e di una certa inspiegabile fiducia nella vita che contraddistingue le nostre radici contadine.

Le #paroledimemoria di dicembre nelle filastrocche di Natale

In questo mese abbiamo raccolto il ritmo della felicità semplice e inspiegabile che scandiva i giorni di Natale negli anni del dopoguerra, anni di difficoltà economica ma di grande dignità, e come ricorda mio padre “di grandi sogni”.

Gliu cocò / zia Cosa

Gliu cocò è lo strumento che ha dato il nome all’intero “rito”, un antesignano del “dolcetto – scherzetto” che si accompagnava di filastrocche che suonavano così:

Oi zia Cosa, scegnésce caccòsa,
caccòsa alla spagnola / alla salute re zi' Gnicola. 
E si ce l'adda scegne, 
scegnascella lestu, 
lestu e correnno ca tama i' cantenno,
lestu e correnno ca tama cammina'.

E continuava con una serie di strofe “augurali”, tipo:

 Si ce scigni nu corneglio (= dolce tipico natalizio) 
 puzzi fa' nu figliu beglio, 
si ce scigni na caramella 
puzzi fa' na figlia bella (...) 

E alcune personalizzabili, come:

Agliu susciu, agliu susciu,
si thu nu me canusci, 
so gliu figliu re Bongiuagni, 
scegnamigliu nu pirtuagliu (= arancia) 

Gli cunthi sono i racconti della tradizione, prevalentemente orale (mi piacerebbe ricordarne per intero almeno uno di quelli che mi raccontava la mia bisnonna) e le suscelle sono le carrube, usate nell’immediato dopoguerra (anche) come surrogato dei dolci per i bambini.

E’ solo un assaggio del Natale corenese, parole portate dal vento in una delle nostre passeggiate dicembrine nella natura che abbraccia per intero il nostro paese. Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, se avete strofe, tradizioni e parole di memoria da aggiungere… sono benvenute, come ogni altra suggestione o correzione della trascrizione!

Bono Natale, 
megliu Capu r’agnu,
come gli ‘amo vist’auanno
accussi a centautagni
Parole di memoria – Natale a Coreno Ausonio

Se volete saperne di più sulla rubrica #paroledimemoria #caffeconrose
Parole di memoria, piccola rubrica. Nel dialetto l’identità del territorio

Se volete seguirci sul canale video Youtube:
COFFEE N’ROSES Youtube

Per comunicare scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara)
Ps: a breve avremo la nostra piccola newsletter, ma al momento intrattengo ancora ed esclusivamente corrispondenze “di penna” (via email) ;0)

Parole di memoria, piccola rubrica. Nel dialetto l’identità del territorio

Manteniamo viva l’identità del nostro territorio, attraverso il suo dialetto.

Camminare nella natura attraverso le stagioni è un esercizio di memoria. Spesso lo faccio con mio padre e nel camminare incontriamo parole del nostro dialetto. Pezzi di storia, pezzi di memoria, pezzi di noi.

Qui le parole di novembre, ritrovate camminando nella campagna di Coreno Ausonio (FR).

Parole di memoria. Novembre , Località: Bareoglie, Coreno Ausonio (FR)
[riprese Sergio Monetta; starring il signor Tonino aka mio padre]

Cosa è Parole di memoria

Attraverso le parole del nostro dialetto recuperiamo ogni mese ricordi e manteniamo viva l’identità del nostro territorio, che è anche la nostra.

Partiamo a novembre, da Coreno Ausonio (FR), il “mio posto”.
Scopriamo le parole di questo mese e la storia che raccontano, nel loro piccolo. Ci aiuta mio padre, il “signor Tonino” come (secondo me) felicemente ribattezzato dalla mia amica ig @ladydiprovincia.
Le parole di novembre che trovate nel video :
– chiàtema – scocciacannàte – ventrìscu + un modo di dire sul tempo incerto.

Parole di memoria è una rubrica mensile che serve in primis a noi, per riconoscere le radici e non perderle. Speriamo piaccia anche a voi.

Promettiamo di migliorare nelle prossime uscite!

#paroledimemoria #caffeconrose

COFFEE N’ROSES Youtube

Parole di memoria novembre
Parole di memoria #caffeconrose – Novembre

*******

PS: di Coreno Ausonio sentirete ancora molto parlare, intanto qui un po’ di riferimenti geografici, come ben sintetizzati da qualche compaesano volenteroso su Wikipedia.

“Coreno Ausonio si trova a 318 m s.l.m., su un altipiano posto sul fianco sud-ovest del Monte Maio (m 940), facente parte della Catena dei Monti Aurunci. L’abitato non dispone di un unico centro storico, ma è diviso nei suoi caratteristici antichi rioni, costruiti di solito intorno a un solo casale originario che s’ingrandiva, stanza dopo stanza, per via dell’incremento demografico delle famiglie, che prendevano i nomi degli edificatori primordiali.

Il territorio comunale presenta le caratteristiche di un territorio montano che digrada a uno collinare, con un andamento da nord-est a sud-ovest. Le altre cime dei monti Aurunci, presenti nel territorio, sono il monte Rinchiuso (778 m), il monte Feuci (830 m) e il monte Reanni (554)” (…)

*******
Se interessati al tema della memoria, consiglio:

Piccolo museo del diario “Senti la Storia che sussurra tra le storie?” Pieve Santo Stefano (AR)